La legge Basaglia
Quando un argomento viene preso alla larga, è un chiaro segno che scotta.
È proprio il nostro caso.
Chi scrive, chi legge, chi è stato in prima linea a ragionare sugli interventi possibili e necessari in favore del disagio mentale, tutti siamo/sono a rischio di offrire una prospettiva parziale, e quindi corrotta, su una fetta di storia di un passato recente e ancora attuale. Necessariamente attuale, visto che riguarda quella porzione di umanità ferita, coloro che “sono sempre con noi” direbbe la Scrittura: i portatori della “pietra della follia”, così raffigurati nel suo dipinto da Hyeronimus Bosch.
Il tema scotta, si diceva, perché corre sul sottilissimo confine che separa l’impegno civile e professionale autenticamente in favore dell’essere umano, della sua dignità e del suo benessere, da una marcata coloritura ideologico-politica di quel medesimo impegno, che finisce per alterare le motivazioni ideali, in nome di altro.
Accettiamo però la sfida di parlarne sapendo, peraltro, che la neutralità è un paradigma ormai ampiamente superato anche in ambito scientifico; nello stesso tempo, e proprio per questo, ci impegniamo a mantenere viva la consapevolezza di possibili derive di parte e quindi a monitorare ciò che ci accingiamo a trattare, evitando note troppo tecniche che renderebbero più impacciata la lettura.
[…]
Partiamo dunque da lontano: nel 2003 l’Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica (A.R.A.P.), organizza un convegno per un confronto tra la normativa italiana in materia di salute mentale e assistenza psichiatrica, e quella dei principali Paesi europei, Inghilterra, Germania, Francia e Finlandia.
Per introdurre il nostro tema ci sembra particolarmente indicato l’intervento di Anthony Sheenan, direttore del Dipartimento di salute mentale e capo dell’Istituto nazionale per la Salute mentale in Inghilterra (NIMHE), il quale esplicita che la riforma della legislazione per un vero cambiamento da sola non basta, se essa non procede di pari passo col miglioramento della cura della salute mentale e con una strategia nazionale per lo sviluppo di servizi migliori, per gli utenti e per le loro famiglie. Sheenan sottolinea la necessità di «un cambiamento di paradigma nel sistema della salute mentale, in cui gli utenti dei servizi e le loro famiglie siano veramente al centro dei nostri pensieri e del nostro agire politico».
E richiama, fra altri, alcuni dati interessanti:
– l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) preannuncia che la malattia mentale diventerà la causa principale di malattie croniche dominanti durante questo secolo;
– circa un terzo di tutte le visite mediche generiche ha una componente inerente la malattia mentale;
– la maggior parte delle prescrizioni mediche è fatta per stress, ansietà e depressione più che per qualunque altra malattia;
– la malattia mentale costa all’economia del Regno Unito circa 32 milioni di sterline ogni anno;
– 630.000 persone ricorrono ogni giorno agli specialisti della malattia mentale.
[…].
Insomma in Europa la situazione non è rosea: tutti d’accordo che occorra mettere al centro l’attenzione e il rispetto della persona, e quindi ridurre al minimo le misure coercitive; d’accordo anche sulla necessità di sostegno alle famiglie, senonché le strutture, in una rilevante porzione d’Europa, risultano ancora fortemente inadeguate rispetto a tutti i buoni propositi.
In Italia, in particolare, una legge della fine degli anni ’70, divenuta presto notissima, ha cambiato il volto dell’assistenza psichiatrica.
Si tratta, dal nome del suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia, della “legge Basaglia”, del 13 maggio 1978, «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori», tecnicamente legge 180, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 18 maggio 1978 al n. 133.
La grossa novità introdotta dalla legge consiste nel divieto di […] costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche.
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La legge Basaglia, nonostante i 30 anni trascorsi, continua a far parlare di sé e a dividere nettamente la comunità scientifica, e non solo quella, tra i suoi sostenitori tout court e quanti invece ritengono necessaria una riforma che adegui la legge ai cambiamenti dei tempi.
[…]
Cantelmi inizia allora, negli anni di impegno politico-professionale, a mettere in discussione il tabù della 180 e il polverone mediatico che questo solleva è intuibile; vogliamo concentrarci però sui tre punti che egli mette in evidenza in quanto particolarmente problematici:
– l’organizzazione per la salute mentale in Italia non tiene conto delle acuzie, cioè della fase acuta della malattia: i posti letto ospedalieri sono scarsi. Certo questo, all’epoca, nella logica sociogenetica basagliana, passava per un cavillo ideologico: se la malattia mentale non esiste, va da sé che non si debba porre la questione del farmaco e nemmeno dei posti letto, la risoluzione del dramma passa solo attraverso un intervento sul tessuto sociale.
– l’organizzazione sanitaria italiana per la salute mentale non tiene conto del problema della cronicità e del fatto che non tutti i pazienti possono vivere semplicemente nelle loro famiglie: molte di loro non sono in grado di far fronte a una presenza così problematica, per cui sono necessari luoghi più idonei di accoglienza del paziente cronico. Non si tratta, è chiaro, di riaprire manicomi, ma di costruire piccole realtà, piccole strutture ideate per quanti non possono procedere senza un supporto specifico.
La realtà delle famiglie è veramente dolorosa – Cantelmi lavorerà parecchio al fianco di Associazioni di famiglie di pazienti psichiatrici –, sono state proprio loro a pagare lo scotto di una legge pensata solo a metà: quelle che non erano in grado di far fronte alla gravità del disagio del congiunto o del figlio, si sono ritrovate con un carico insostenibile. E oggi su di loro sembra incidere significativamente il senso di “vergogna” per il debole di casa, a cui corrisponde, per conseguenza, l’incapacità paralizzante di chiedere aiuto.
Da: La pietra della follia, nuove frontiere della psicologia contemporanea – dialogando con Tonino Cantelmi, di Chiara D’Urbano (Città Nuova, 2016)