La kermesse della realtà

S’apre la grande manifestazione ungherese dei giovani dei Focolari. La sfida della “relazione vera” tra ragazzi e ragazze del mondo intero che lavorano per una società più giusta, più coesa, più unita
genfest budapest

Già nella mattinata, nella centralissima piazza Mihály Vörösmarty, tempio della cultura magiara, incontro delle giovani della Malesia giunte qui dopo peripli impossibili che, osservando la bellezza e la pulizia della città, esclamano felici: «L’Europa è proprio bella!». E aggiungono, un po’ per scusarsi un po’ per sincero desiderio: «Bisogna ora che riusciamo a portare qualcosa della nostra ricchezza orientale al Genfest ungherese». Subito dopo, si unisce al nostro crocicchio un gruppetto di siciliani, e scattano le presentazioni, le foto con tanto di bandiere sventolanti, il contatto reale. Due di loro si riconoscono: per mesi e mesi si sono scritti via social network, e ora si ritrovano. La gioia è difficilmente spiegabile, incontenibile. Ma non è finita: come benzina sul fuoco si aggregano al gruppo dei brasiliani di Recife, mancava la musica e accenni di passi di danza. E i passanti indigeni se la spassano nel vedere un tal gruppo esultare. Qualcuno si unisce alla improvvisata kermesse.

Il Genfest, giunto ormai all’età di 40 anni, stupisce ancora una volta. Se negli anni Settanta ed Ottanta si era presentato come una vera novità, a cui la Chiesa e la società civile hanno poi attinto a pieni mani (il copyright, beh, non ne parliamo, Gmg in testa!) per trovare formule adatte al mondo dei giovani che cambiava, oggi in tanti si chiedono che cosa proponga di nuovo, quale sia la sua “cifra”. Appare subito chiaro: è la relazione, tra giovani in particolare, l’incontro di cuori e menti che è anche incontro di culture, razze, tradizioni, religioni. Sappiamo tutto di tutti, ormai, siamo in contatto attraverso gli strumenti digitali da tasca con un’infinità di gente d’ogni angolo del mondo. Ma che cosa può mai sostituire un incontro reale, le mani che si stringono e le braccia che s’intrecciano, l’emozione del contatto vero, quello sudato, non mediato, non virtuale?

Lo ha confermato la presidente dei Focolari, Maria Voce, in un’intervista mattutina. E me lo ripete un giovane indiano che sventola la sua bandiera con un orgoglio che renderebbe felice il Mahatma in persona: «Finalmente ho la prova fisica che quel mondo più unito di cui tanto si parla nelle nostre chat non è un sogno poco credibile. Qui ci siamo e ci rimaniamo».

Qui ci siamo e ci rimaniamo. Il Genfest ripropone l’alchimia della festa e della gente, della festa e delle generazioni che si incontrano. Non all’improvviso, però, non estemporaneamente ma al termine di un percorso che ha portato ognuno dei partecipanti a costruire qualcosa di socialmente utile nel proprio Paese, nella propria città, foss’anche un piccolo gruppo scolastico dedito all’aiuto ai terremotati emiliani (una giovane di Trieste), fosse pure la fondazione di un’impresa per lavoro artigianale in una favela (un giovane di Rio de Janeiro), o una attività nelle adozioni a distanza (una ragazza vietnamita), o anche l’impegno a rimettere assieme papà e mamma (una giovane statunitense).

Ognuno dei partecipanti ha un suo “curriculum di costruzione d’un mondo più unito”, di pontifex (Let’s Bridge è il neologismo scelto come titolo del Genfest 2012). 
Ed è per questo che questa edizione del Genfest è vera, è reale, non è un ennesimo incontro multi-religioso, multi-culturale, multi-qualcosa. È un bozzetto di mondo più unito, un intreccio di ponti. È utile. Perché questi giovani, una volta tornati a casa loro, potranno dire che il mondo più unito è una cosa concreta, l’hanno visto, l’hanno toccato. C’è bisogno di realtà, non di virtualità oggidì.

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