La guerra voluta, la pace possibile

Economia, politica e religione, difficili vicinanze, possibili convergenze per la pace. Se ne parla all’Unesco con esperti e testimoni
Unesco

In occasione della celebrazione dei 20 anni dell’attribuzione del “Premio Unesco per l’educazione alla pace” a Chiara Lubich, nella sede parigina dell’organizzazione culturale delle Nazioni Unite, la gravità della situazione socio-politico-religiosa internazionale è emersa con forza. Non come una semplice denuncia di società difficilmente regolabili che rischiano di implodere, se non esplodono, ma come una ricerca di quei segnali di cambiamento di direzione della Storia che pur esistono, anche se pochi sanno leggerli. Enrico Letta, già primo ministro italiano, ora presidente dell’istituto Jacques Delors, dà il tono del dibattito che si apre ricordando quanto la globalizzazione abbia provocato di problemi e quanto invece abbia creato delle chance: «L’effetto divisivo della globalizzazione è sotto gli occhi di tutti, lo testimoniano le vicende di questi anni. Ma nel contempo la globalizzazione ha avuto il merito di sradicare le cause delle stesse divisioni dalle nostre società». Non è una contraddizione, come apparirà chiaro nel corso del lungo, doppio dibattito.

 

Le religioni sono un problema o una chance per la pace?

Tema strategicamente decisivo: solo alcuni anni fa chi osava parlare di religione come fattore indispensabile nella politica internazionale per regolare i conflitti e promuovere la pace sarebbe stato allontanato. Oggi, invece, è impossibile farne a meno, «sempre più la religione entra nelle analisi e nelle azioni politiche anche come fattore di pace», ha spiegato Fabio Petito, dell’Università del Sussex, in Gran Bretagna. Ipotesi appoggiata indirettamente da Adnane Mokrani, professore al Pisai di Roma, che ha investigato dalle parti della sofferenza musulmana, denunciando l’ideologizzazione scandalosa del terrorismo e della dittatura. Il mondo musulmano sta vivendo molteplici umiliazioni, «perché la religione viene usata per infiammare gli animi, e diventa un campo di battaglia per il potere». La religione è fatta di persone che credono nell’Altro, ma che hanno fiducia anche nell’altro. «L’altro diventa un arricchimento della mia propria cultura», afferma Léonce Bekemans, belga dell’Università di Padova, Cattedra Jean Monet. Nel suo pensiero, il dialogo interculturale anche per le istituzioni laiche è ormai una necessità. «Per sviluppare i sentimenti di appartenenza e di cittadinanza è necessario un profondo lavoro tra culture, tra religioni, tra gruppi diversi». Con uno sguardo particolare all’educazione, alla pedagogia, che sola può sviluppare «una cittadinanza interculturale, quella del nuovo villaggio globale».

 

Politica ed economia nel disordine internazionale

Sempre più, poi, il panorama internazionale sembra creare una delle poche cose che sono veramente globalizzate: la paura, il terrore che un’anarchia globale, un disordine politico incontrollabile (vedi Siria, Somalia, Grandi Laghi, Libia, Mar cinese meridionale…) diventi la normalità. Pasquale Ferrara, ambasciatore d’Italia in Algeria, si pone una domanda per chiarire l’attuale situazione geopolitica internazionale: «Game or field? Gioco o campo?». Il multilateralismo (il game) è tale che i giocatori sono determinati in anticipo, mentre nel multipolarismo (field) che sta prendendo piede oggi i giocatori non sono definiti in anticipo. Quindi la prospettiva geopolitica cambia, crescono i rischi, ma nel contempo anche le possibilità sconosciute per una nuova governance locale e mondiale. Un “vero” mondo politico, anche internazionale, ha bisogna di una politica pan-umana. «Think locally and act globally (pensa localmente e agisci globalmente), è una nuova prospettiva, e non più think globally e act locally (pensa globalmente e agisci localmente)», sostiene Ferrara. Damien Kattar, economista libanese, già ministro delle Finanze nel suo Paese, non ha dubbi: «Siamo più deboli, più frammentati anche politicamente, mentre il mercato diventa onnipotente. Ma potrebbe anch’esso crollare, è anch’esso fragile. Lasciando solo paura». Nel mondo ormai siamo tutti minoranze. E le minoranze hanno naturalmente paura. Perciò i processi di mediazione debbono mettere assieme le minoranze, in modo da sconfiggere la paura e creare strumenti e strutture accettabili e atti a creare condivisione. «Sempre più i valori debbono entrare nella politica internazionale», conclude il ministro Kattar.

 

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