Nei rifugi in attesa di pace, l’esperienza di Chiara Lubich

La vita catacombale delle popolazioni civili in tempi di guerra. Oggi in Ucraina, ieri nella Trento di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, sotto le bombe.
Una donna ucraina in un rifugio con il figlio per paura delle bombe, foto Ap.

Edifici distrutti, vittime civili, sfollati, sangue, lacrime… Mi vengono in mente alcuni versi del poeta Salvatore Quasimodo, sconvolto dagli orrori della Seconda guerra mondiale: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo./[…] T’ho visto: eri tu,/con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,/senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,/come sempre, come uccisero i padri […]./ E questo sangue odora come nel giorno/quando il fratello disse all’altro fratello:/ “Andiamo ai campi”».

Tema centrale della poesia è l’eterno ritorno della guerra nell’umanità, dove cambia solamente il modo in cui si combatte. Oggi con i missili e altre armi sofisticate di ultima generazione, ieri con i bombardamenti aerei a tappeto.

Mi viene spontaneo, in questi giorni, sovrapporre alle immagini tv della guerra in Ucraina altre simili: quelle, documentate da foto e filmati d’epoca, della città di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, nel biennio 1943-1944. Per annientarvi le difese tedesche, la piccola Trento subì ben 42 incursioni aeree alleate, dovute alla sua importanza strategica di nodo ferroviario sulla linea del Brennero e alla vicinanza al campo di aviazione di Gardolo.

Chiara Lubich

Chiara non scrisse un diario di guerra, ma di quegli anni terribili raccontò più volte alcuni episodi fondanti del nascente Movimento: la notte di “stelle e lacrime” nel bosco Gocciadoro, la casa di famiglia sinistrata, il distacco dai familiari e, nell’ospedale appena bombardato dove prestava servizio il fratello Gino, la visione delle vittime di un intero reparto, sprone per lei ad andare avanti nella sequela di Cristo.

Di quel periodo tragico, grazie ad altre testimonianze orali e scritte, veniamo a sapere che al primo suono delle sirene la popolazione civile si affrettava a raggiungere i vari rifugi antiaerei scavati nella roccia, insufficienti e non tutti sicuri: nascondigli umidi, antigienici, maleodoranti e scarsamente illuminati. Senza contare che molti di essi erano occupati anche di notte da chi aveva avuto distrutta l’abitazione, giaceva ammalato o aveva paura del “Pippo”, il micidiale caccia notturno inglese.

Nei rifugi dove riparava anche undici volte al giorno, Chiara Lubich intratteneva le compagne a leggere il Vangelo – parole da trasformare in sostegno verso quanti avevano intorno – e ricordava il patto solenne di dare la vita l’una per l’altra, l’intuizione avuta scampando per un soffio alla morte e infine la scoperta del testamento di Gesù nella cantina di via Travai.

Proprio così: tra rifugi e cantine, si può dire che la nascita del Movimento abbia avuto una fase catacombale, sulle orme dei primi cristiani.

Di quello stesso periodo rimangono anche alcune lettere, indirizzate da Chiara a familiari, ragazze e appartenenti al Terz’ordine francescano. Sorprende come in esse non si accenni alla guerra; lo spazio è per l’unico tema che le sta veramente a cuore: amare Dio e farlo amare. Fanno eccezione le due qui riportate in parte, dove l’animo della giovane Lubich risente degli ultimi eventi bellici.

È il 16 aprile 1944. Chiara sta scrivendo un breve, ma significativo messaggio – interrotto, forse, dall’arrivo dei bombardieri – a Elena Molignoni, una ragazza di Castello di Ossana, il paese della Val di Sole dove la Lubich era stata maestra nell’anno scolastico 1938-39:

«Elena carissima, rispondo alla tua letterina approfittando d’un allarme, in un praticello accanto al rifugio, mentre attendo di entrare nel “buco” alla venuta degli apparecchi. M’ha fatto piacere, tanto piacere il tuo scritto. Ho sentito il cuore di Elena che batte col mio.

Mi chiedi quello che faccio. Non ti posso rispondere così per iscritto, ma se in poche parole posso dire il perché della mia vita, queste sarebbero: Amo Dio e lo vorrei amare come mai fu amato. Lavoro per farlo amare.

Nella mia vita c’è anche lo studio: frequento il primo anno dell’università di Venezia, ma lo studio non è il mio fine. Nella vita, nell’unità è troppo meschino dinanzi a quel Dio che innalza gli umili e abbatte i potenti. Studio perché è volontà di Dio e la fatica è prezzo di penitenza per pagar le anime.

Tutto il resto che accade nella mia vita non mi tocca: uno solo è il mio desiderio, la mia passione, che l’Amore sia amato. Sento la mia impotenza, ma l’abbandono a Dio. Tutto fondo su una fede che non crolla: credo all’Amore di Dio: credo che Iddio mi ama, e in nome di quest’Amore domando alla mia vita e alla vita di quelle anime che camminano nel mio ideale cose grandi, degne di chi sa d’essere amato da un Dio…».

E arriviamo al 13 maggio 1944. Una nuova incursione aerea scatena il finimondo su Trento e la casa dei Lubich in via Gocciadoro ne resta gravemente danneggiata. Il distacco affettivo dai familiari che riparano verso Centa è una tappa decisiva nella vita di Chiara, un taglio che produrrà germogli di vita nuova. Rimasta sola, torna nella città devastata per rintracciare le giovani che ha trascinato a vivere il suo Ideale e dove, dimenticando il proprio dolore, fa suo quello di una donna impazzita per aver visto morire quattro persone care.

Qualche settimana dopo, il 7 giugno, Chiara scrive una nuova e più drammatica lettera a Elena. In essa, mentre rievoca lo spettacolo dei morti dopo l’ultimo raid aereo, innalza un vero inno all’Amore crocifisso, quasi un testamento.

«Carissima Elena […] Ho avuto anch’io la grazia di soffrire con tanti; ho avuto anch’io la mia casa sinistrata e inabitabile; ho dormito anch’io sotto le stelle, ho fatto chilometri a piedi; ho sofferto e pianto e per tutto questo: lode al buon Dio che nel suo grande amore ha provato il mio amore e mai mai, Elena cara, ho così lodata la vita come ora che ho visto che tutto passa e ciò che rimane è solo quel tanto [di] amore di Dio che raccogliamo nel nostro cuore. […]

Sì, è vero, faccio l’Università, ma nessun libro per bello e profondo che sia dà al mio animo tanta forza e soprattutto tanto amore quanto Gesù Crocefisso. Dinanzi a lui ogni dolore mi sembra un nulla e attendo il dolore piccolo o grande come il più grande dono di Dio, giacché è quello la prova del mio amore per lui!. […] Pensa, Elena: possiamo amare Iddio con questo piccolo cuore! Possiamo amare Iddio! Oh! Nessuno ci toglierà quest’amore: nemmeno il più terribile bombardamento[…]».

Ritorno ai fatti di oggi, mentre attorno a Odessa, lo strategico porto ucraino sul mar Nero, si va stringendo sempre più l’assedio russo. Pronta ad una resistenza disperata, la popolazione sa dove ripararsi dai missili e dalle bombe: nella città sotterranea. Una immensa rete di gallerie, le più estese del mondo e in gran parte ancora inesplorate, che durante l’ultimo conflitto diedero rifugio ai partigiani sovietici. Anche questo misterioso labirinto dovrà ospitare una vita catacombale in attesa che tacciano le armi e germogli finalmente la pace?

 

 

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