La guerra infinita
Nairobi. Partiamo dalla capitale keniota con un piccolo aereo di 19 posti: destinazione Lokichokio, punta avanzata del Kenya al confine con l’Uganda e con il Sud Sudan: qui è stata realizzata una base da dove vengono inoltrati gli aiuti umanitari di numerose organizzazioni internazionali. Il viaggio dura due ore e lo scenario che sorvoliamo è particolarmente suggestivo: un’alternanza di foreste e deserti, ma nessun insediamento umano. Lokichokio. Arriviamo in questa località di frontiera, sede di un piccolo aeroporto e di numerose Ong di tutto il mondo; attorno allo scalo, capanne di gente poverissima che vive delle piccole economie generate dalle attività aeroportuali: solo da qui si parte per entrare nel Sud Sudan in mano ai ribelli, una regione grande tre volte l’Italia, in guerra da una trentina d’anni. Il verbo “entrare” è usato da tutti perché rende bene l'”andare dentro” una zona difficilissima e pericolosa, sede di guerra e di guerriglia. Siamo di poco sotto l’Equatore e il caldo è incredibile, soprattutto in confronto a Nairobi che è a 1700 metri al di sopra del mare; ma il problema più fastidioso è la grande quantità di mosche e zanzare che attaccano da tutte le parti, incuranti di spray e altri rimedi che cerchiamo di usare. Siamo ospitati per la notte nella base dei comboniani, una serie di casette in sasso (in Sud Sudan troveremo solo capanne di paglia); davanti a noi una lunga collina, dietro la quale c’è il Sud Sudan, dove andremo domani. La nostra cena è a base di purè di patate, “chapati”, che sono focacce di farina e acqua, e un po’ di carne di animale non identificabile. Il mattino dopo alle 6, con mio marito e mio fratello, che lavora qui con base a Nairobi, prendiamo un piccolo aereo da turismo con sette posti, per una serie di tappe nel paese in guerra: i ribelli danno il permesso di entrare ai missionari e ai loro accompagnatori, in quanto fanno attività di istruzione e formazione, portando viveri, medicinali e quanto occorre alla sopravvivenza dei civili. Prima di noi dalla base decollano due aerei cargo che portano viveri delle Nazioni Unite lanciandoli nei luoghi più inaccessibili e comunque abitati. Anche il nostro piccolo aereo è stipato di pacchi. La missione effettua questo volo una volta alla settimana con un costoso noleggio dell’aereo. Con noi viaggiano una suora e un sacerdote; nelle varie tappe altri missionari e civili saliranno o scenderanno da e per diverse destinazioni. Sud Sudan. Le nostre tappe in Sud Sudan sono Rumbek, Mayen Aboun, Njamllel, Malualkon e poi ancora Rumbek sulla via del ritorno verso Lokichokio. Il territorio del Sud Sudan, un tempo protettorato anglo-egiziano, è da troppo tempo terra di conquista in quanto ricco di petrolio; inoltre 40 tribù si contendono le poche terre fertili, in quanto l’allevamento è l’unica risorsa; i civili girano armati, anche in tenera età, e la lotta per accaparrarsi terra e bestiame si sovrappone alle lotte con le milizie organizzate del Nord Sudan, musulmano e fondamentalista quanto il Sud è cristiano o animista. Raggiungiamo il primo villaggio dopo due ore di volo, senza vedere insediamenti umani ma solo qualche capanna in corrispondenza di macchie di verde, unico segno di vita. A un tratto un incendio, che ha già annerito una vastissima parte della radura e continua incontrollato; poco distante scorre il Nilo. Scendiamo in una zona fertile, facendo prima un giro raso terra per allontanare gli animali dalla pista in terra rossa: qua e là si vedono fuochi, in corrispondenza degli accampamenti dei pastori con le loro vacche, mentre vicino alla pista ci sono le capanne di paglia del villaggio. In tutti gli atterraggi si ripete la stessa scena: gruppi di adulti e bambini accorrono verso il piccolo aereo, molte persone, anche giovani e bambini, si sostengono sulle grucce, segno di una guerra che non risparmia i civili; l’arrivo di un velivolo è sempre segno di provviste, di cibo, di medicinali, di libri per i catechisti, che sono delle autorità nei villaggi. Si resta il tempo necessario per lasciare i pacchi e per fare rifornimento, con una pompa a manovella, si salutano gli abitanti, che danno la mano ai visitatori in segno di benvenuto e vogliono essere fotografati, si lascia un missionario o se ne riprende un altro e si riparte verso la nuova destinazione. Vediamo tracce di numerosi incendi recenti che lambiscono le povere capanne, talvolta qualche recinto è indice di un inizio di stanzialità in queste zone di nomadi, le capanne sono spesso rialzate come delle palafitte, e sotto di esse gli uomini, che fanno lavoretti di bricolage, trovano riparo dal caldo torrido; le donne lavorano incessantemente, camminano con grosse ceste o con taniche d’acqua in testa, oppure pestano in un mortaio o sono intente a mescolare sul fuoco una sorta di polenta, unico loro pasto; alcune ci offrono da bere in bicchieri di metallo. Fra i civili si aggirano uomini armati fino ai denti, civili essi stessi ma in atteggiamento di difesa. In due occasioni attraversiamo dall’alto la ferrovia che attraversa in linea retta gran parte dell’immensa pianura fino a Wau, che è in mano ai governativi; è quindi pericoloso fare tragitti a terra e si usa l’aereo anche per brevi tratti. Quando sorvoliamo i binari non passano treni, ci dicono che rari convogli in transito sono oggetto di violenti scontri fra le fazioni avverse; dove la ferrovia attraversa un fiume, ai due lati del ponte si scorgono accampamenti militari: sono i governativi che presidiano la via di ferro, unico loro avamposto in una zona controllata dai ribelli. A Rumbek, sede di una diocesi retta dai comboniani, troviamo le uniche costruzioni in muratura: una piccola chiesa, un piccolo ospedale e qualche sede di Ong; ma sono inagibili perché colpite da recenti bombardamenti. Attorno, le capanne sono più numerose che altrove, e molte sono in costruzione per accogliere gli sfollati che arrivano dal nord, dove la guerra è più violenta. Sulla via del ritorno, l’afa incredibile è mitigata da un venticello che annuncia la pioggia, attesa come la manna. Imbarchiamo qualche sacerdote che rientra in Kenya e due feriti. La mattina dopo ripartiamo da Lokichokio; il nostro aereo è più confortevole di quello dell’andata, ha un copilota donna, altre donne abbiamo visto pilotare gli aerei delle diverse Ong che atterrano nella foresta. A poche ore dal nostro ritorno in Italia, arriva un messaggio per posta elettronica: il governo sudanese ha appena sganciato sedici bombe sui civili della zona di Narus, vicino a Lokichokio; il mercato, la scuola e la chiesa sono stati colpiti, alcune costruzioni sono state distrutte, un bambino è rimasto gravemente ferito, altri civili sono feriti. La guerra continua. UN PO’ DI STORIA Sede della civiltà egizia nella Nubia, il Sudan fu islamizzato dagli arabi nel nono secolo e successivamente annesso all’Egitto. L’impero britannico occupò l’Egitto nel 1882 e dal 1899 amministrò anche il Sudan. Il Nord del paese cominciò a progredire mentre il Sud, prevalentemente popolato dai nuba, divenne una riserva di schiavi. L’indipendenza del paese arrivò nel 1956, ma la convivenza degli arabi del nord e dei neri del sud fu subito difficile. La guerra civile fra Nord arabo e musulmano e Sud nero e cristiano o animista non è mai cessata da allora. Il Sud delle montagne Nuba è particolarmente preso di mira in quanto sede di giacimenti petroliferi importanti e ancora poco sfruttati; vi operano compagnie canadesi e, in parte minore, cinesi, malesi, europee e sudanesi. Ma dai proventi dell’oro nero i sudanesi del Sud non traggono alcun vantaggio, anzi i villaggi vengono spesso rasi al suolo, gli uomini sono costretti ad arruolarsi o vanno ad alimentare le fila dei ribelli, i bambini vengono addestrati per la guerra, le donne vengono a volte vendute per lavorare a Khartoum, la tratta degli schiavi, ufficialmente debellata, continua nel silenzio e nell’accettazione dei governi che si succedono. Il movimento di liberazione del Sudan (Spla) è un’armata di ribelli che cerca di evitare l’arabizzazione violenta del paese. I missionari, le suore, molti laici arrivano qui per difendere le popolazioni inermi, effettuando, con piccoli velivoli, voli pericolosissimi perché lo spazio aereo sudanese è sorvegliato dalla contraerea: portano cibo, medicinali, generi di prima necessità, ma non possono fare molto per fermare una guerra che ogni tanto conosce qualche tregua e poi riprende violenta. In Italia è in atto una campagna per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan: troppo poco per arrivare a una pacificazione effettiva nella latitanza degli organismi internazionali che dovettero garantire la pace.