La guerra giusta dopo il ritiro da Kabul

Come sta cambiando la concezione della guerra nella Chiesa con l’insegnamento di Francesco e l’enciclica Fratelli tutti? Intervista allo storico Daniele Menozzi, autorevole studioso sul tema della presenza cristiana nel mondo contemporaneo
Guerra Afghanistan (AP Photo/Emilio Morenatti)

Guerra giusta e guerra inutile. Passato il clamore per la modalità del ritiro delle truppe Usa e alleate dall’Afghanistan, riconsegnato dopo 20 anni nelle mani del regime talebano, resta ancora papa Francesco ad esprimere una forte opposizione alla guerra. Lo ha fatto, ad esempio, nel messaggio rivolto ai partecipanti del G20 Interfaith Forum 2021, che si è svolto a Bologna dal 12 al 14 settembre, per ribadire che «Dio non è Dio della guerra, ma della pace» e quindi invocando «lo ius pacis come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza. Per questo ripetiamo: mai più la guerra, mai più contro gli altri, mai più senza gli altri! Vengano alla luce gli interessi e le trame, spesso oscuri, di chi fabbrica violenza, alimentando la corsa alle armi e calpestando la pace con gli affari».

Affermazioni radicali che abbiamo chiesto di commentare a Daniele Menozzi, autorevole storico italiano, accademico dei Lincei, professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, che ha dedicato gran parte dei suoi studi al rapporto tra cattolicesimo e società dall’epoca rivoluzionaria ai nostri giorni, in particolare su alcuni nodi cruciali come la pace e la guerra, i diritti umani, e l’antisemitismo.

Davanti al ritiro occidentale dell’Afghanistan si parla ancora di una guerra “inutile”, presupponendo quindi che il conflitto possa essere “utile” come pare nelle premesse delle parole di Benedetto XV del 1917 davanti al mattatoio della “grande guerra”. Le pare che nella Chiesa cattolica, con l’enciclica “Fratelli tutti” e l’insegnamento di Francesco si stia andando oltre il concetto di guerra giusta?
Papa Francesco ha ripreso in diverse circostanze – in particolare, ma non solo, in occasione delle commemorazioni per il centenario del primo conflitto mondiale – la celebre frase sulla guerra come inutile strage espressa nella nota che nell’agosto 1917 Benedetto XV indirizzava ai capi delle nazioni belligeranti per invitarli a sospendere “l’immane massacro” e intavolare negoziati. Lo ha fatto per sottolineare che il suo predecessore aveva ricordato come l’adesione al Vangelo comportasse la sostituzione del dialogo allo scontro come via per la soluzione dei conflitti. Alla base della indicazione di Bergoglio sta certamente la concezione teologica presentata nell’enciclica Fratelli tutti: la comune paternità di Dio implica la fraternità fra tutti gli uomini e quindi l’instaurazione tra di essi di relazioni pacifiche. Naturalmente il papa non ha approfondito il significato storico di quella nota, vale a dire il monito (niente di più!) rivolto alle cancellerie che il mancato avvio delle trattative poteva condurre ad un possibile abbandono da parte della Santa sede della teologia della guerra giusta che legittimava i fedeli a partecipare allo scontro armato. Ma a Francesco interessava enunciare un principio che ritiene pienamente attuale.

Siamo ancora dentro la contraddizione tra l’invito, come nel 1917, a fermare la guerra rivolto ai capi delle nazioni assieme all’obbedienza dovuta all’autorità?  Cosa ha impedito, ad esempio, che il “mai più” esibito a lettere colossali sull’Osservatore Romano del 2003, con riferimento al conflitto in Iraq, si traducesse nell’invito esplicito alla disobbedienza?
All’indomani della Grande Guerra alcuni cattolici, tra cui Sturzo, trassero le conseguenze della nota del 1917: le capacità distruttive raggiunte dagli armamenti moderni rendevano superata la teologia della guerra giusta, che, attribuendo al potere politico la decisione sul ricorso alle armi, comportava per i credenti l’obbligo di obbedire. Ma l’autorità ecclesiastica non approvò questo passaggio. Nemmeno davanti alle armi nucleari ritenne possibile abbandonare quella millenaria tradizione dottrinale, anche se cominciò a rendere sempre più stringenti e vincolanti le condizioni che consentivano di metterla in pratica. Dopo la Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII nessuna guerra che non fosse di difesa poteva più ritenersi moralmente lecita. Ma in tal modo si è continuato su un doppio registro: la costante esortazione omiletica alla pace si è accompagnata alla presentazione di casi in cui era legittimo l’uso della violenza bellica. Le sporadiche prese di posizione contro un determinato conflitto, come talora ha fatto Giovanni Paolo II, non mettevano in questione il principio enunciato nel Catechismo della Chiesa universale secondo cui vi erano circostanze che lo rendevano eticamente giustificabile.

Il paradigma della “guerra giusta” del nostro tempo resta comunque quella combattuta contro il nazifascismo, tanto che anche Dietrich Bonhoeffer decise alla fine di optare per la scelta armata nel cercare di eliminare Hitler.  Rimossa la categoria e le condizioni astrattamente date della “guerra giusta” come si può dare fondamento alla necessità, in certi casi, all’uso della forza?
A me pare che con Francesco si registri un tentativo di superare il paradigma della “guerra giusta”. L’esempio più significativo è il messaggio pubblicato per la cinquantesima giornata della pace 2017. Vi ha affermato che per il credente il metodo della nonviolenza rappresenta lo stile, rispondente al Vangelo, con cui deve rapportarsi ai conflitti che incontra nel suo cammino nella storia. Naturalmente questa impostazione non implica l’accettazione supina dell’aggressione: è invece l’invito a trovare le vie con cui resistere al male senza ricorrere a mezzi violenti. In fondo proprio gli studi recenti sulla sconfitta del nazifascismo ci fanno meglio comprendere quanto abbia contato, accanto alla lotta armata partigiana, ma non subordinata o complementare ad essa, una resistenza civile che, senza armi, ha tenacemente contrastato, rendendolo alla fine impraticabile, il progetto totalitario di annientamento della vita e del tessuto civile di una comunità. Mi pare che la riflessione cristiana dovrebbe oggi approfondire questi esempi, anziché cercare con il lanternino i casi di una guerra giusta.

Obama, come appare evidente nel discorso per il Nobel per la pace nel 2009 e in quello pronunciato a Hiroshima nel 2016, ha detto di rifarsi al “realismo cristiano” del teologo protestante Reinhold Niebuhr sulla necessità della guerra pur conoscendone gli effetti nefasti. Come si può leggere, invece, l’impostazione culturale del cattolico Joe Biden?
L’amministrazione Biden è entrata in carica da pochi mesi, sicché è ancora difficile darne una valutazione fondata. Inoltre, come è noto, l’attuale presidente deve fare i conti con una Chiesa americana profondamente divisa sulle questioni che potremmo chiamare dei “principi non negoziabili”. I settori tradizionalisti agitano strumentalmente questi argomenti, in modo da condizionare in chiave conservatrice tutto lo spettro della sua azione di governo. Biden – secondo presidente cattolico della storia americana – se pare possa essere libero dal tradizionale sospetto protestante sul “papismo” dei cattolici statunitensi, deve comunque porre particolare attenzione a stabilire qualche nesso tra i suoi interventi e la sua professione di fede. Tuttavia a me sembra che si possa cogliere una sintonia di fondo tra i suoi indirizzi e quelli di papa Francesco. Non credo che questa convergenza possa spingersi al punto di cancellare l’impostazione di fondo di una politica internazionale che per gli Stati Uniti si basa sul possesso (e l’eventuale uso) del più potente esercito del mondo, ma mi sembra che ci siano i segni di un suo cambiamento: più attenzione al negoziato che al ricorso alla forza, ricerca della promozione del dialogo bilaterale e multilaterale, contributo alla limitazione concordata degli armamenti. Piccoli passi, senza dubbio; ma avvicinano alla meta indicata dal papa, anziché allontanare da essa come si è assistito durante la precedente amministrazione.

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