La guerra e noi, le domande che ci portiamo dentro / 2

Seconda parte della cronaca di un itinerario in Italia, dal porto di Genova a quello di Trieste, nelle scuole di Parma per arrivare a Roma, alla vigilia del Giubileo tra scenari di guerra sempre più vicini, per dare voce ad un’umanità che non si rassegna alla seduzione della logica bellica. Con una domanda che rimanda a quella di Isaia: «Quanto manca sentinella della notte?». «Che tempi abbiamo per cambiare davvero il corso del mondo?».
Manifesto propaganda della prima guerra mondiale Museo Mart ANSA/ UFFICIO STAMPA/ MART

Ciò che non vogliamo guardare

Qui la prima parte della cronaca ragionata di un viaggio in Italia

Ora, nel novembre 2024, mi ritrovo nella situazione surreale di essere chiamato a parlare di pace mentre si fanno sempre più cupe le prospettive dell’estensione della guerra in Europa, anche con la minaccia dell’arma nucleare e nel Medio Oriente si consuma da oltre un anno una carneficina senza fine, oscurata dai nostri media nelle immagini più cruente che lasciano sgomenti davanti allo strazio della morte di masse di civili inermi, compresi i bambini. Come sappiamo, basta il dolore straziante di un piccolo per una malattia impietosa a generare dubbi sul senso dell’esistenza e la bontà della creazione. Come si può non restare sgomenti e senza parole davanti agli eccidi più efferati, alla violenza gratuita inferta su chi è indifeso? Come si può parlare di perdono e riconciliazione davanti a torti imperdonabili che chiedono vendetta di generazione in generazione?

Le prime pagine dei giornali, che i ragazzi non sono abituati a vedere e neanche a toccare, non possono fare a meno di riportare le notizie sull’estensione possibile della guerra che porta il presidente Usa Biden, ormai in procinto di uscire di scena, ad autorizzare l’invio in Ucraina delle mine anti-uomo senza che i suoi alleati, a cominciare dal governo italiano, dicano alcunché.

Siamo dentro la lunga eredità del nazismo nella nostra storia, che non si è estinto con la morte di Hitler nel bunker di Berlino. La comparsa del male assoluto ha legittimato l’uso della violenza più estrema per debellarlo: i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche – si pensi a quella al fosforo su Dresda – e italiane fino alla scoperta “provvidenziale”, come ha scritto Churchill, dell’arma nucleare lanciata sulla popolazione giapponese di Hiroshima e Nagasaki. Non ne bastava una per dimostrarne la potenza letale?

Sono perciò sempre più persuaso che l’opinione pubblica, che si dice prevalentemente orientata contro la guerra, in verità vorrebbe solo essere lasciata in pace; finendo per accettare come una necessità l’invio di armi in Ucraina davanti alle pressioni della Nato, la crisi dell’Onu e la carenza di iniziativa politica europea. Una lenta ma progressiva desensibilizzazione che conduce ad accettare l’inevitabilità del riarmo e la possibilità del coinvolgimento diretto nel conflitto come già teorizzato da eminenti think tank destinati ad influenzare il senso comune grazie ai tanti canali di comunicazione di cui usufruiscono in numerose sedi, a cominciare dalle tv.

Città Nuova è una fonte anomala nel panorama editoriale come periodico di opinione che si basa da sempre su un azionariato diffuso composto dai suoi abbonati, che sono parte attiva e quindi anche critica di un’impresa comune. A Parma esiste un circolo di lettori molto attivo promosso da Anna Maria Carobella. Veniva da Parma Lionello Bonfanti, il più giovane magistrato d’Italia al quale è stato intitolato il polo dell’Economia di Comunione. Di ascendenza e reale portamento nobile è stato il direttore Guglielmo Boselli, sempre di Parma, che negli anni 80 promosse appelli contro la deriva bellicista assieme ad altre testate cattoliche, E nel 2011 tra i pochi decisi e ragionati no alla nuova impresa bellica in Libia c’è stato quello di Michele Zanzucchi, anch’egli un direttore proveniente da Parma, che la guerra la racconta spingendosi sui luoghi di conflitto.

Di fatto, oggi un clima sempre più plumbeo viene avvertito in maniera impercettibile dalla sensibilità dei più giovani che, tra l’altro, in numerosi istituti di ogni grado ricevono la visita dei militari coinvolti in attività formative tanto che un gruppo di docenti, genitori e studenti hanno dato vita ad un osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.

È perciò evidente il rischio di promuovere attività formative sulla pace accettate formalmente dagli studenti, ancora tolleranti verso una certa retorica dei loro insegnanti, rimasti a categorie culturali esibite con arcobaleni e colombe, ma intimamente convinti o tentati di accettare l’inevitabilità del conflitto. Anche se ciò che manca in questo preteso realismo indotto da un nuovo sentire comune, è la consapevolezza di una chiamata diretta alle armi che coinvolgerà direttamente le giovani generazioni. La coscrizione obbligatoria è solo sospesa in Italia. Ma se, come dicono apertamente i vertici militari, occorre prepararsi alla guerra, la cartolina di precetto arriverà nelle case dei giovani che ora stanno ancora sui banchi di scuola degli ultimi anni delle superiori. Prima si allargherà il numero dei volontari, poi quello dei riservisti, e poi tutti per “l’usura del personale”, come scrivono in linguaggio burocratico, richiesta dall’attività bellica.

Anche in Germania, in preda alla crisi impensabile della Volkswagen, impegnata in un vasto piano di riarmo deciso in tempi rapidi, con alle porte le elezioni dove si attende una crescita della destra neonazista, sta valutando di reintrodurre la leva semi obbligatoria ispirandosi al modello svedese

Gli unici che nel nostro Paese sembrano avvertiti dalla serietà dello scenario imminente sono i militanti del Movimento nonviolento che invitano chiunque a fare una dichiarazione ufficiale preventiva di non collaborazione in caso di guerra, con una missiva da indirizzare alle autorità competenti. Un gesto che, se compiuto in massa, avrebbe effetti importanti, anche perché è molto breve il tempo che intercorre dall’avverarsi del casus belli alla campagna mediatica che precede l’inevitabile coinvolgimento in guerra.

Sembra oggi. La storia di un giovane del secolo scorso 

In tre mattinate ho potuto fare il mio intervento alla presenza di oltre 500 studenti in diversi plessi scolastici. Come al solito, ho incrociato sguardi di ogni genere mentre facevo scorrere le immagini che uso per accompagnare la relazione: manifesti di propaganda della “grande guerra”. frasi emblematiche e foto delle principali agenzie di stampa, assieme ai dati sul riarmo mondiale e il ruolo attivo in questo campo dell’Italia che compare tra i primi esportatori di armi a livello internazionale.

L’intento non è certo quello di alimentare la depressione, ma di sollecitare la coscienza personale di ribellione alla guerra per poi capire come agire assieme in maniera concreta. Porto l’esempio dei lavoratori obiettori di coscienza alla produzione bellica che hanno permesso di arrivare alla legge 185/90, ora in via di smantellamento e quindi da difendere dalla pressione delle lobby delle armi, l’esempio dei portuali di Genova e del comitato riconversione in Sardegna che è riuscito a fermare per alcuni anni il flusso in Arabia Saudita di missili e bombe prodotte dalla controllata italiana della tedesca Rheinmetall. Una vittoria della società civile capace di incidere sulle scelte che contano e che ora indica la necessità di un laboratorio nazionale permanente di riconversione economica per indicare strade diverse dalle “magnifiche sorti e progressive” della tesi che associa sviluppo economico e industria di armi.

Parlo di papa Francesco che è un rompiscatole, di Giorgio La Pira come esempio di un vero e concreto politico di pace – sperando che si vada a vedere cosa ha fatto -, di Franca Faita che dovrebbe essere nominata senatrice a vita perché con le sue compagne ha fermato la produzione di mine in Italia. Racconto di un giovane di provincia che nel 1914 era atterrito e amareggiato dai troppi preti che, sui diversi fronti, benedivano le armi con cui un’intera generazione si sarebbe scannata nelle trincee. E di come poi quella persona decise, pur indossando una divisa, di non sparare un colpo contro il nemico e poi nel 1949, dopo aver osteggiato il fascismo e diventato padre costituente, volle definirsi deputato di pace presentano per la prima volta in Parlamento una proposta di legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare che gli inimicò buona parte del suo partito.

Una storia, quella di Igino Giordani che, ormai vecchio, scrisse in un’autobiografia nel linguaggio semplice e profondo da grande conoscitore degli autori dei primi secoli del cristianesimo che a lui sembrò di ricevere contribuendo a fondare il Movimento dei Focolari di cui è espressione il foglio per cui scrivo. E proprio su Città Nuova invito a trovare traccia dei percorsi alternativi alla cultura della necessità e giustificazione dello scontro bellico. Dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente che vede la collaborazione tra ebrei e palestinesi, dalle storie incredibili di riconciliazione e perdono da parte di chi ha visto i propri cari morire in maniera orrenda ma non vuole altro sangue e vendetta. Esperienze che non sono consolatorie ma richiedono di essere conosciute, ascoltate e diffuse per incidere e trovare spazio nelle trattative per porre fine al massacro.

In questi incontri parlo ovviamente del ruolo della finanza nel sostenere il comparto delle armi e delle guerre. E quindi sulla scelta da promuovere di spostare i conti correnti personali, associativi, istituzionali verso le banche etiche, come tassello di un’intera economia da disarmare perché uccide in tanti modi. E questo cambiamento richiede scelte strutturali, che nel caso italiano vuol dire discutere delle finalità delle grandi imprese a capitale pubblico a partire da Leonardo, che è un grande patrimonio da orientare verso produzioni civili in linea con la transizione ecologica, mente la direzione attuale segue direttive politiche trasversali che hanno portato, ad esempio, qualche mese addietro a dismettere, a favore in pratica dei cinesi, un’importante industria di produzione di autobus che rappresenta, invece, l’esempio di un investimento decisivo nel trasporto pubblico a basso impatto ambientale.

Di tali questioni ho avuto modo di parlare, grazie alla Casa della pace, anche con alcuni docenti dell’università di Parma per capire l’eventuale contributo al Laboratorio di riconversione industriale che già vede interessati ricercatori e studiosi universitari di Cagliari, Torino e Perugia, assieme ad esponenti di associazioni, movimenti e centri studio.

Quello che ho potuto cogliere nelle reazioni e nelle domande degli studenti, che Roberto Marchioro ha raccolto, è la richiesta di un livello di approfondimento serio, che è come una traccia di lavoro da continuare.

La questione dei tempi

Una domanda esigente che, tra le altre, è quella che pone Rocco, un ragazzo di 18 anni, sui “tempi”, cioè sulla possibilità di realizzazione di quanto affermiamo non nel tempo lungo o anche medio, ma “adesso”. Che poi è il titolo della rivista a cui alcuni giovani del 1955 chiedevano di sapere se dovevano, in caso di conflitto con l’Unione Sovietica, prendere le armi e per rivolgerle a chi. «Tu non uccidere» fu la risposta netta e articolata che, in quel momento, diede don Primo Mazzolari pur dovendosi nascondere, per alcuni anni, dietro l’anonimato per non cadere sotto la censura ecclesiastica che gli procurò tante difficoltà nella vita, senza impedire tuttavia a questo prete di campagna di essere considerato un punto di riferimenti per molte persone, dentro e fuori la Chiesa.

Qualche anno prima, nel 1941, nella risposta alla lettera di un giovane aviatore, Mazzolari rispose che non era tenuto ad obbedire agli ordini che gli venivano dall’autorità superiore, intaccando così uno dei cardini della teorica generale sull’obbedienza dovuta alle legittime autorità in caso di guerra.

L’evangelico “non uccidere” era in contrasto con il consiglio dato sui campi di battaglia ai soldati cristiani di “uccidere senza odio”, secondo la formula che lo stesso Mazzolari accettò in un primo momento, come interventista democratico, nel primo conflitto mondiale, salvo poi cambiare radicalmente idea davanti alla realtà della guerra.

«Tu parli così delle armi e della guerra perché non l’hai conosciuta come è capitato a me», è stata la risposta che una giovane di origine straniera ha sentito di dover dare alle affermazioni di uno studente che durante uno degli incontri a Parma ha reagito al mio intervento magnificando l’utilità della guerra e delle armi con accenti di antica matrice futurista.

“Tu non uccidere”. Siamo in grado noi oggi di rispondere allo stesso modo? Oppure ci nascondiamo dietro formule ambigue e possibiliste? Lo spettro della soluzione finale dell’arma nucleare è sempre più vicino, ci dicono gli scienziati americani che mostrano le lancette avvicinarsi a pochi secondi dalla mezzanotte dell’orologio dell’Apocalisse.

«È venuto il tempo il tempo di decidere per cosa morire e per cosa uccidere». Ci arriva oggi, con la chiarezza da ammirare per franchezza di Vittorio Emanuele Parsi, un autorevole studioso della Cattolica di Milano, la risposta opposta a quella di Mazzolari. Con l’evidente invito a non farsi condizionare dalle minacce dell’uso dell’arma nucleare da parte di Putin, ma di puntare sul riarmo non solo dell’Ucraina per arrivare alla vittoria e quindi ad una pace giusta.

D’altra parte non c’è altra soluzione se si pone il fatto che Putin è il nuovo Hitler verso il quale non si può ripetere l’errore fatto a Monaco nel 1938. In questo senso è tacciata come inconsistente ogni discussione sulle cause della guerra a partire dalla decisione della Nato di espandersi ad Est e sul fallimento voluto dal premier britannico Johnson di ogni trattativa di tregua in Ucraina avviata nell’aprile del 2022.

Liberarsi da una maledizione

La maledizione del “paradigma Hitler” è usata da parte russa per giustificare l’operazione speciale verso Kiev, la gerarchia ortodossa benedice la riscossa nazionale nel solco degli immortali dei quali si fa memoria ogni 9 maggio con gigantesche manifestazioni in onore dei 27 milioni di morti nella guerra contro i nazifascisti, compreso il sacrificio di un milione di russi nella battaglia di Stalingrado che si svolse dal luglio 42 al febbraio 43. Celebre il discorso del dittatore sovietico che nel 1941 per motivare alla guerra usò l’antica invocazione di “fratelli e sorelle”.

E non è permanente il riferimento al genocidio del popolo ebraico voluto da Hitler per giustificare la necessità di difendere Israele da ogni attacco mortale al popolo che giustifica la reazione di “difesa” in corso nella Striscia di Gaza?

Quante guerre continuano ad essere giustificate con il paragone al nazismo? E la stessa bomba nucleare non trova origine nella giustificazione di trovare l’arma finale prima degli scienziati hitleriani? I fascisti italiani non confidavano forse nella scoperta del raggio mortale atteso dalle ricerche del genio Guglielmo Marconi?

Come ha detto Gunther Anders, con l’obbedienza cieca all’uso della bomba atomica, che continua ad essere spacciata come garanzia di pace assicurata dall’equilibrio del terrore, siamo tutti eredi di Eichmann, il grigio funzionario dei campi di concentramento convinto della propria innocenza perché mero esecutore di ordini altrui.

Dobbiamo perciò far conoscere e ascoltare la lezione di chi come Joseph Rotblat, al quale i nazisti avevano sterminata la famiglia nei campi di concentramento, decise di non collaborare al progetto Manhattan di costruzione dell’arma atomica e ha continuato ad invitare gli scienziati e i tecnici a non collaborare alla creazione di strumenti di morte.

Come sappiamo i dubbi postumi di Oppenheimer vennero ridicolizzati e stigmatizzati dal presidente statunitense Truman che si vantò di aver «speso più di due miliardi di dollari sulla più grande scommessa scientifica della storia», la bomba capace di sfruttare «il potere fondamentale dell’universo. La forza da cui il sole trae energia è stata lanciata contro coloro che hanno provocato la guerra in Estremo Oriente».

Preso da queste riflessioni, tornando a Roma, ho assistito, ad un mese dal Natale che segna l’inizio del Giubileo, al convegno “La Nato verso il 2030. Strategie per un futuro incerto” promosso dal centro studi Machiavelli presso l’università Link, che ha sede nello storico sito del Casale di san Pio V, legato alla visione che quel papa ebbe della vittoria della flotta cristiana nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571. Nell’offerta formativa dell’ateneo privato troviamo anche la materia di Studi strategici e della sicurezza.

Il Centro Machiavelli è da apprezzare per la trasparenza e pubblicità con cui tratta questioni importanti chiamando i massimi rappresentati dei vertici industriali e militari che, evidentemente, pur essendo consapevoli della refrattarietà istintiva dell’opinione pubblica a trattare di spese necessarie per le armi, non si mostrano affatto preoccupati di una possibile resistenza politica verso la necessità del riarmo chiesto costantemente dalla Nato in linea tra l’altro con i vertici europei che si stanno preparando ad un confronto non facile con il nuovo presidente Usa che, come ha ricordato l’ex ministra della Difesa Pinotti, nei precedenti incontri non ha avuto modo di esprimersi con toni duri ed eclatanti, tipo pugno sbattuto sul tavolo.

Far conoscere i tanti pericoli incombenti di uno scenario geopolitico incerto, secondo il parere concorde dei convegnisti, è la premessa necessaria per far crescere una “cultura della sicurezza”, la spesa in armi. Insomma ciò che, ad esempio, un efficace divulgatore come Federico Rampini afferma quando riconosce che sarebbe auspicabile dedicare più risorse a sanità e scuola ma sono altri gli investimenti richiesti al nostro Paese se intende svolgere un ruolo significativo nella politica internazionale.

Così l’Italia non partecipa solamente, ad esempio, come partner di secondo livello della statunitense Lockheed Martin al programma dei cacciabombardieri F35 (a luglio ha stanziato 7,5 miliardi per l’acquisto di 25 esemplari), ma sta investendo con Gran Bretagna e Giappone (e si parla esplicitamente anche di Arabia Saudita) in un programma avveniristico del caccia di sesta generazione Tempest (Gcap) che sfugge alle nostre categorie perché metterebbe in campo un vero e proprio sistema di informazioni in grado di decretare in pochi secondi la sconfitta del nemico. Con il voto della maggioranza, assieme a Pd, Azione e Iv, il Parlamento italiano ha previsto un investimento di 7 miliardi e 526 milioni di euro per la sola fase di ricerca e sviluppo del prototipo.

Non sfugge l’effetto che una tale prospettiva apre all’idea sempre ricorrente di poter assestare il primo colpo senza riportare danni a se stessi, che è il via libera all’uso di ordigni nucleari cosiddetti tattici. Il primo passo, cioè, di un percorso ignoto che supera anche il limite del terrore della mutua distruzione.

Come dico sempre negli incontri pubblici che faccio, il criterio da seguire, e che coinvolge il ruolo dell’informazione, è quello di “vedere, capire e agire”. Quindi non rimuovere lo sguardo ma conoscere i termini della realtà. Cercare di capire ciò che si riesce a vedere, così da offrire strumenti per cambiare ciò che appare ingiusto.

Un esercizio paziente e non discontinuo per poter rispondere alla domanda di Rocco: è veramente possibile, senza rimandare a tempi ignoti, qui e ora, quel cambiamento che tu, e quelli come te, auspicate? Oppure è destinato a prevalere il potere seduttivo della guerra?

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