Quando la guerra diventa arte

“The Grand Sofar Hotel”, mostra dell’artista britannico Tom Young, è nei fatti un memoriale della guerra civile libanese. In un contesto di distruzione, le tele suggeriscono la ricchezza fragile della pace

Mi trovo a visitare una mostra d’arte che, debbo dirlo a posteriori, mi riempie il cuore e lo sguardo. L’hanno installata in un hotel sulle alture sopra Beirut, verso Damasco, distrutto durante la guerra: quello che visito era uno dei mille fronti che si erano creati nella terra dei cedri dilaniata dalle violenze politico-etnico-religiose. Prima del 1975, la zona era particolarmente ambita per trascorrervi periodi di vacanze, essendo situata oltre i mille metri e godendo di una vista sconfinata. Qui c’erano le ville di emiri e sceicchi, di presidenti e patriarchi, e anche la vita notturna era proverbiale.

grand-hotel-sofar-libanoAl centro della zona turistica, c’era il Grand Hotel Sofar, luogo di raffinatezze e di lussi franco-libanesi: il Grand Hotel Casino Ain Sofar, questo il suo nome completo, era stato costruito nel 1892 da una delle famiglie più note e acculturate del Libano, i Sursock, grandi amanti d’arte. Per decenni aveva avuto un suo posto stabile nel novero degli hotel più famosi del Medio Oriente, attirando re ed emiri, artisti, socialisti e diplomatici. Nelle sale disposte attorno ai suoi 24 corridoi, si danzava, si giocava a poker, si beveva, si stringevano alleanze politiche.

Dopo la guerra, a lungo nessuno se l’è più sentita di investire un soldo bucato in una struttura architettonica che era diventata uno scheletro di pietra e cemento, con qualche moncherino di suppellettile penzolante. Trent’anni di abbandono, quindi. Ma un erede Sursock ne volle fare una sorta di memoriale alla guerra spaventosa.

grand-hotel-sofar-libanoL’ampio edificio, che era diventato un luogo di ritrovo per balordi, dove il guano degli uccelli aveva corroso ogni superficie di legno, dove cani, serpenti e topi la facevano da padroni, fu restaurato pur lasciato nella sua condizione di memoriale. I kuwaitiani e i sauditi avevano ormai disertato la regione, i ricchi beirutini (o barutesi, beirutiani o beirutesi: non c’è ancora consenso lessicale tra i puristi italiani) passavano velocemente con le loro auto da quattro litri dinanzi al decrepito edificio, pronunciando poche parole di nostalgia. Qualche artista locale si sera messo in testa di chiedere alle autorità di poter trasformare alcuni locali dell’edificio in atelier, ma si era scontrato con la burocrazia indistricabile di queste contrade.

Finche Roderick Sursock Cochrane non intervenne. È stato un artista di altrove – Tom Young, britannico, noto per alcune ardite installazioni come The Rose House e Villa Paradiso – a perdersi qualche anno fa, nel 2013, nella bellezza struggente del Sofar, nata dalla bruttezza dell’edificio cadente. Più volte ci è tornato, sperando di trovarvi una qualche ispirazione per le sue opere. È stato colto come da un raptus, e di tele ne ha dipinte alcune dozzine, tutte aventi come soggetto immortalato l’albergo distrutto. L’arte di Young era atta a esaltare il ritorno sui ricordi e la rinascita di spazi abbandonati, per ricreare «capsule nel tempo di narrazioni immaginarie», atte a trasportare i visitatori in momenti lontani ma realissimi.

grand-hotel-sofar-libanoLe opere di Tom Young riuscivano a esprimere la loro forza evocativa, e la loro delicatezza, solo nel momento in cui l’artista le installava in quei locali abbandonati. Allora prendevano vita, appoggiate a un intonaco scrostato, sistemate su un gradino impolverato, issate su uno stipite sbeccato, illuminate da una sottile lama di luce filtrata da un vetro scheggiato. Nacque così l’idea di esporre quei quadri proprio in quel contesto così degradato, quasi che la bellezza delle tele – delicate, come leggermente fuori fuoco, sussurrate più che gridate – esaltasse la drammatica brutalità dello stupro architettonico, la macchia indelebile del sangue mescolato, l’odore acido della polvere impastata con gli umori umani, il non-senso dell’odio istituzionalizzato e non solo militarizzato. Un pianoforte sfondato, un mucchio di vecchi telefoni, un tavolo da gioco senza più un piede e dal panno verde butterato, un armadio piegato su un fianco con tutte le sue scansie, conferiscono all’ambiente un suo contegno decadente.

Ci si perde al The Grand Sofar Hotel, dove le distruzioni partoriscono fiamme di vita. Insospettabili.

 

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