La guerra che fa male

Torna la calma in Thailandia. La grande preghiera nazionale.
Thailandia

È ormai arrivata la stagione della pioggia, attesa da tempo e giunta in ritardo. Porta refrigerio e nuova vita, come la pace, arrivata in ritardo, dopo tanta attesa e troppi morti: i morti della Guerra sono sempre troppi.

La Guerra (la scrivo con la maiuscola, perché tale è stata) è rimbalzata attraverso i media in tutto il mondo. La Thailandia è stata teatro per alcune settimane di forti scontri tra manifestanti e militari. Questi ultimi sono entrati nel famoso incrocio del Ratchaprasong, al cuore del distretto più ricco di Bangkok, dopo lunghe trattative e ultimatum, là dove erano asserragliate migliaia di persone da due mesi. Molti contadini, ma anche intellettuali, cantanti, gente della classe media, una parte del popolo. Le trattative tra governo e manifestanti non si erano mai interrotte, più volte si era arrivati vicini all’accordo. Ma, purtroppo, troppa gente voleva lo scontro, anche per le spinte provenienti dall’estero.

Abito a pochi metri dalla zona degli incidenti più gravi, a 500 metri da Ratchaprasong. La notte non si riusciva a dormire per i colpi degli M79, memoria di guerre da Rambo. La Guerra è così, fa male sempre, è falsa, dura, cattiva, è soprattutto assenza di verità. La Guerra distrugge chi la fa e chi la subisce, persino quel Central World, uno dei simboli della città per la sua maestosità, un centro commerciale andato in fumo in due giorni di fiamme dopo la razzia.

 

Scrivo nella prima notte in cui si può circolare liberamente. Il governatore di Bangkok ha chiamato quanti erano liberi per ripulire la città in un big clean day. Gente di tutti i colori, razze, religioni, professioni, una scopa in mano, idranti, solventi… Una festa di liberazione. Poi, alle 18, un time out nazionale, tutti in silenzio, raccolti: ognuno a pregare secondo la propria fede. La Thailandia è anche questo: è saper ricominciare, chiedere aiuto all’altro e all’Altro. Tutti insieme.

Rimane la profonda divisione nel Paese: da una parte le “camice rosse” che hanno per il momento perso la partita; dall’altra il potere costituito, che ha guidato la Thailandia negli ultimi cinquant’anni, accompagnato dalla mano palese o nascosta dei militari. Ora non pochi si stanno impegnando in un programma di riconciliazione nazionale, per una maggiore uguaglianza sociale ed economica, per riforme sostanziali a favore delle classi meno abbienti.

E credo che questo splendido Paese, in termini di risorse umane, riuscirà a superare anche questa nuova sfida. Anche perché è un Paese che sa pregare. Ci si sente tutti impegnati: buddhisti, cristiani, musulmani, sikh, indù. L’esperienza della “preghiera nazionale”, accompagnata dai media, è stata un fatto da cui non si può tornare indietro.

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