La guerra al tempo della finanza predatoria
Davanti a scenari sempre più inquietanti di apocalissi atomiche, stragi di innocenti e lancio di superbombe abbiamo sentito Silvio Minnetti, Presidente del Movimento politico per l’Unità(Mppu), promotore dell’incontro “Scelte di pace, riconvertiamo l’economia che uccide”, che si è tenuto alla Camera il 14 marzo scorso, ifatti, grazie anche all’impegno che il Mppu ha cercato di portare avanti mantenendo i rapporti con esponenti dei diversi partiti facendo appello alla coscienza di ognuno e alla motivazione profonda che all’origine di ogni autentica vocazione politica come servizio al bene comune.
Cosa può spingere concretamente le nazioni a convertire l’economia della guerra, che prevede un investimento economico importante, in una economia della pace?
Intanto c’è una motivazione di carattere economico: l’industria militare non risolve il problema drammatico della disoccupazione, perché ha alta intensità di capitale ma bassissima intensità di lavoro. Quindi la scelta fatta nel nostro Paese nella direzione dell’industria militare, con la vendita di pezzi di Finmeccanica Leonardo che è civile a società private multinazionali non è stata una scelta intelligente dal punto di vista economico. Inoltre nel multilateralismo non è più esistente una “uni-potenza” mondiale e quindi anche l’Italia e l’Europa devono riposizionarsi in modo da ridurre le spese militari con un unico esercito necessario per la difesa e per le urgenze umanitarie, per incentivare il nuovo paradigma dell’economia civile, dell’economia digitale, dell’occupazione dei giovani, etc. Concretamente ci sono diverse ragioni, ma tutto questo passa per l’affermazione degli “Stati uniti d’Europa” perché questo equilibrio tra est e ovest, ma anche tra nord e sud, solo l’Europa lo può garantire.
Papa Francesco ha ricordato che alla base delle guerre ci sono sempre grandi disuguaglianze. A questo riguardo la politica ha una responsabilità importante: cosa si può chiedere al Parlamento italiano, sia con riferimento alla situazione internazionale in Medio Oriente, che riguardo alle disuguaglianze interne al nostro Paese che sono fonti di altri conflitti non meno drammatici?
Si deve chiedere di essere più coraggiosa e più coerente, perché all’affermazione di certi valori proclamati di uguaglianza e progressismo devono corrispondere politiche, ad esempio di contrasto alla povertà. Abbiamo fatto qui due anni fa un seminario sulla povertà e all’epoca a livello di governo non se ne parlava. Da allora si è passati dal destinare alla lotta alla povertà non più solo 600 milioni di euro ma un miliardo e 600 milioni. Bisogna quindi prendere atto che un mondo così pieno di diseguaglianze è un mondo di guerre potenziali, come molte già ce ne sono in corso, se pure a pezzi. Quindi i politici italiani devono acquistare coraggio, ma questo esige anche partiti veri che pensano, che hanno una strategia e non sono condizionati da lobbie e interessi elettorali a breve termine.
Non ci sono in questo momento partiti così configurati nel panorama italiano?
Sono abbastanza fiducioso perché abbiamo visto, nel lavoro qui in Parlamento, che ci sono ottimi parlamentari che vengono per esempio dal volontariato, dalle amministrazioni comunali, dal terzo settore con elevata motivazione sul piano ideale. Poi chiaramente per incidere sulle politiche bisogna creare una forza trasversale ma anche ricostruire le culture politiche di veri e propri partiti. Qualcuno già ce n’è, se non si sfascia prima del tempo, qualche altra area nel centrodestra o intorno al Movimento 5 Stelle si può creare. Sicuramente abbiamo bisogno però di uomini coraggiosi ma anche di soggetti che concorrano a determinare la politica nazionale sfuggendo nella loro debolezza attuale da superare ai condizionamenti della finanza, perché questa è una politica debole frutto anche di una dipendenza dal potere finanziario che non può avere la supremazia.
Rispetto alla necessità di prevenire i conflitti in Europa, come vede l’avanzata dei movimenti e dei partiti populisti?
Il problema è complesso ed è difficile rispondere in poche parole. Fondamentalmente è una rivolta contro le élite che nasce dalle diseguaglianze che il “turbo-capitalismo” ha creato in questi anni con il cosiddetto “pensiero unico” neoliberista, che dopo il 1989 ha avuto un’affermazione così forte da sgominare tutte le altre dottrine economiche, indebolendo quei soggetti che erano sempre stati dalla parte degli ultimi e dei poveri. Le vittime di queste diseguaglianze, non trovando più i loro interlocutori storici, si rivolgono a chi parla al loro malessere: può trattarsi anche di un Trump o di una Le Pen che pur avendo origini diverse sanno interpretare questo malessere. È chiaro che rimanere in una politica subordinata alle tecnostrutture, sia pure europee, significa incoraggiare questi populismi. Quindi più che gridare ai populismi cerchiamo di rinnovare le élite che siano rappresentanti di una democrazia partecipativa che sa poi risolvere i problemi della povertà e degli ultimi.
Quindi c’è una grande responsabilità in capo all’Europa e ai leader dei governi?
Si, c’è una responsabilità e spero se ne ravvedano presto rispetto agli errori fatti negli ultimi tempi perché il nostro sogno, quella della mia generazione – sono del ’51 – nata con l’idea di Europa e degli Stati Uniti d’Europa potrebbe naufragare e sarebbe molto grave. Però possiamo farcela, speriamo che gli elettori e le élite si intendano.