La Grecia e il referendum/2
In qualche modo, la scelta di Tsipras – che invita l’elettorato a votare “no” – polarizza due momenti del processo politico europeo, e cioè negoziare da una parte, votare dall’altra. Ora, nessun negoziato che io conosca ha mai tratto beneficio dal trasferimento delle questioni complesse dal tavolo delle trattative al seggio elettorale.
Il voto può essere la conferma della sagacia politica di chi lo propone, oppure può trasformarsi in una trappola, ma in ogni caso irrigidisce le posizioni perché è una strada senza ritorno. Lo abbiamo visto già in atto, questo progressivo irrigidimento, sia nelle grandi capitali (Berlino in testa) che nelle Iistituzioni di Bruxelles.
Un negoziato conosce fasi alterne, lo scenario può cambiare, posizioni rigide possono diventare improvvisamente flessibili, ma una volta che “il popolo ha parlato” appare pressoché impossibile prescindere dal risultato.
Ripeto, la consultazione popolare è di per sé un valore, ma va anche considerato il contesto in cui avviene. E quindi non si tratta di tessere le lodi della democrazia a scapito della diplomazia. Per come è fatta l’Unione Europea, sono necessarie entrambe, ma ciascuna ha il suo ruolo e il suo momento.
Gli economisti e i politologi hanno studiato, ad esempio, le conseguenze di un’asimmetria nelle informazioni nel mercato o tra chi gestisce le scelte politiche e di chi le osserva dall’esterno e le subisce. Mi si dirà che persino i processi elettorali rappresentativi comportano margini di incertezza sulle scelte che gli eletti effettivamente compiranno una volta insediati. Ma almeno le elezioni non sono monotematiche, c’è una gamma di opzioni e di programmi, e quindi tutto sommato il rischio si riduce o si distribuisce su più fronti.
In una consultazione referendaria secca la scelta è di tipo binario, si o no, mentre le questioni sono, come nel caso greco, ben lontane dall’essere riducibili ad un’alternativa tra bianco e nero. Che dire, ad esempio, della gestione “consociativa” dell’economia greca, che per decenni ha puntato ad una politica distributiva senza mettere in atto parallelamente una politica “estrattiva” nei confronti dei redditi più alti?
A me pare che la crisi greca sia senza dubbio un’occasione fondamentale per riportare al centro del dibattito il tema cruciale della democrazia nell’Unione Europea.
La soluzione del dilemma consisterebbe in un passaggio di livello, che paradossalmente in questo momento non solo non è sostenuto, davvero, da nessun governo europeo, ma è anche osteggiato da ampie fasce dell’opinione pubblica europea, che all’Unione Europea attribuisce le sue colpe evidenti, ma anche quelle che provengono dai cambiamenti epocali che stanno avvenendo a livello planetario.
In questi processi l’Europa, sostanzialmente divisa in stati e staterelli, e la cui classe politica è alla ricerca di risultati di corto periodo e di natura essenzialmente localistica, rischia di svolgere un ruolo secondario. Come ha scritto Sergio Romano, «finché sarà un sodalizio in cui ogni socio agisce soltanto quando è direttamente coinvolto, l'Europa dirà al mondo, implicitamente, che gli interessi di un Paese non sono necessariamente quelli di tutti. E continuerà ad essere una mezza potenza, incapace di valorizzare le virtù e le risorse di cui dispone».
Come nel romanzo di Musil, L’uomo senza qualità, la situazione attuale dell’Unione assomiglia a una “Azione Parallela”, cioè ad un’iniziativa politica inesistente. Per accrescere la democrazia in Europa occorre il passaggio a un livello più avanzato, funzionale e integrato, di organizzazione politica, nella quale i cittadini europei possano davvero scegliere i governanti europei e dove questi ultimi debbano dare conto del loro operato, soprattutto in ambito economico.
La democrazia in un solo Paese rischia di divenire non solo insufficiente, ma illusoria. Partita dalla Grecia, l’avventura della democrazia europea si gioca il suo futuro nuovamente sulla Grecia, ma il suo orizzonte non può più essere solo Atene, deve essere l’Europa.