La Grecia e il referendum/1

Una delle questioni che è emersa nella crisi greca è quella della democrazia. Quali conseguenze potrà avere sull'Unione Europea la consultazione indetta da Tsipras per il prossimo 5 luglio?
Tsipras

Il referendum indetto da Tsipras appare come il legittimo ricorso al popolo in un momento in cui occorre compiere scelte difficili. Tutto bene dunque? Quasi. La questione è che le conseguenze di tale scelta potrebbero avere effetti per l’intera Eurozona e, in prospettiva, per l’intera Unione Europea.  Non sappiamo naturalmente quale sarà il responso delle urne. Può darsi che il popolo greco dica “si” alle misure di austerità non per convinzione ma per non cadere dalla padella alla brace, e cioè una crisi valutaria e finanziaria, oltre che di credibilità economica internazionale, che potrebbe ulteriormente aggravare la già tragica condizione del Paese. Se dovesse prevalere il “no”, è illusorio pensare che le conseguenze sarebbero limitate al rapporto tra la Grecia e l’Eurozona. L’onda d’urto politica si abbatterebbe su tutta l’Europa e sulla sua credibilità come area di integrazione. Certamente, il quesito referendario riguarda le sole misure proposte (o imposte) dall’Eurogruppo alla Grecia; non contempla esplicitamente né l’uscita della Grecia dall’Euro né mette in dubbio la sua partecipazione all’Unione Europea. È un referendum sulle politiche che la Grecia dovrebbe adottare per rimanere “solvibile”. Da questo punto di vista, il referendum del 5 luglio è di natura apparentemente circoscritta, se non per gli effetti a catena che potrebbe scatenare. Non dimentichiamo che “pende” (per il 2017) un referendum inglese in cui si chiederà ai cittadini inglesi se intendono o meno restare nell’Unione Europea, mentre altri Paesi che hanno già adottato misure drastiche di ri-aggiustamento dei conti pubblici (come Spagna, Portogallo, Irlanda) guardano alla Grecia per capire se l’Unione intenda adottare due pesi e due misure, commettendo una palese ingiustizia, in considerazione dei sacrifici imposti ai loro popoli. Inoltre, da tempo si manifesta, in Europa, una linea di faglia tra Nord e Sud, tra Paesi-formica e Paesi-cicala, con tutto l’armamentario di reciproche invettive e triti luoghi comuni che conosciamo. 

 

Non ho nulla, naturalmente, contro il referendum. Quando i cittadini votano è sempre una festa per la politica. Il referendum mi piace talmente che ne proporrei uno pan-europeo. Chiamiamo al voto su questioni fondamentali in uno stesso giorno e con le stesse regole elettorali tutto il popolo europeo, e in questo caso almeno tutti i cittadini dei Paesi che partecipano all’Euro, per capire cosa ne pensano delle politiche di austerità e della disciplina di bilancio. Bisognerebbe evitare quello che avvenne – anche se in una situazione assai diversa – per i referendum sulla costituzione europea, bocciata dagli elettori francesi e olandesi, e tuttavia approvata in molti altri Paesi. In quel caso, una minoranza dei cittadini europei bloccò, quasi esercitando un diritto di veto, un processo che avrebbe permesso, paradossalmente, di avere istituzioni e procedure europee più leggibili e trasparenti. Ecco un caso in cui un istituto di democrazia partecipativa come il referendum rischia di divenire, quanto agli effetti, uno strumento di prevaricazione di una minoranza sulla maggioranza.

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