La grande pittura sovietica
Al Palazzo delle esposizioni di Roma, la rassegna "Realismi socialisti. Pittura sovietica dal 1920 al 1970" ci fa conoscere cinquant'anni significativi della vita di un mosaico di popoli
Arrivano periodicamente da noi le arti dell’ex Unione Sovietica. Questa volta al Palazzo delle esposizioni a Roma giunge la rassegna “Realismi socialisti. Pittura sovietica dal 1920 al 1970” (catalogo Skira), aperta fino all’8 gennaio.
Una mostra da non perdere, per diversi motivi. Il primo è quello di analizzare attraverso i dipinti l’animus del mondo sovietico dal post prima guerra mondiale, alla seconda guerra fino all’età brezneviana: cinquant’anni forti della vita di un popolo, o meglio di popoli, sotto la pressante ideologia comunista. Il secondo è quello di osservare la formidabile influenza dell’ideologia sull’arte, tipica dei regimi totalitari con la mitizzazione del “capo” e la creazione di “nuovi eroi”. Il terzo è rendersi conto che, nonostante l’indirizzo propagandistico di molte espressioni pittoriche, la vena poetica della “grande madre Russia” per fortuna riaffiora di quando in quando, regalandoci momenti di poesia non comune.
I soggetti si ripetono quasi in ogni periodo: operai, contadini, radunate trionfalistiche, sportivi, ed eroi. Il periodo 1928-36 è segnato dall’indirizzo fortemente voluto dal governo del “realismo socialista”, in un mondo che ormai privilegiava le classi operaie sulle contadine, mentre l’ombra di Stalin già si faceva pesantemente sentire. Il ritratto di Stalin seduto mentre legge il giornale, del 1935, di Georgij Rublev è una icona laica imbarazzante perché, senza volerlo definisce i tratti volpini del futuro dittatore con sconcertante sincerità, mentre vorrebbe tessere l’elogio di un grande uomo. Forse l’opera più bella del periodo è Il paracadutista sul mare (1934) di Aleksandr Deineka, ritratto di un eroe morente nell’azzurro del cielo.
Gli anni della guerra, 1941-45 sono bui e tormentati, e l’arte lo rappresenta con chiaro intento “patriottico”. La tela di Arkadj Plastov I tedeschi stanno per arrivare (1941) vede una famiglia in un campo di girasoli: al contrasto cromatico del giallo verde dei fiori fa riscontro la virilità maschile che guarda in faccia il nemico che avanza e la responsabilità della madre che porta in salvo i figli. Un dolore ed un terrore irrigiditi dal coraggio, come piace al regime. Che nel drammatico La fine (1947, di Kukrynisky) presenta il bunker di Hitler come un inferno di spettri terrorizzati, mentre il dopoguerra si compiace di sfilate con soldati che bruciano le bandiere naziste, eroi della patria a cavallo, ma anche famiglie che mietono i l grano nella grande steppa estiva, che vanno a votare tra i ghiacci sulle slitte. La tela forse più bella della mostra è Sul campo di grano del 1950, di Andrej Myl’nikov. Un inno alla gioia del lavoro, all’estate radiosa in cui un gruppo di donne giovani e floride avanza come una parata di salute e di bellezza sana tra i prati colmi di erbe in fiore. È l’idealizzazione, pur nel realismo di volti e mosse, di un popolo che si sente trionfatore sulla guerra e sul male.
Ma l’ombra della dittatura staliniana è onnipresente e controlla l’arte in modo che non sia aperta al “moderno”, a forme cioè non figurative e non realistiche. Gli artisti spesso son costretti a produrre di nascosto. Così, anche con Kruscev e Breznev l’arte è impedita di sviluppare forme che non siano secondo l’ideologia. Assistiamo anzi ad una esasperazione del realismo. Tele giganti di operai, gruppi di sportivi forti come eroi antichi, ma, per fortuna, qualche attimo di poesia e di umanità riesce a sfuggire alla censura. Guardando Il lavoro è finito (1970, di Viktor Popkov) l’uomo immerso nel sonno, in una posa che cita la celebre scultura classica di Arianna, giace sullo sfondo di una finestra aperta sul buio. Che è nero, cupo, con due gocce di lacrime – di stelle? – sospese su l vuoto, sul nulla. Dietro il trionfo del regime, c’è un grande dolore. Al contrario di Aleksandr Rodcenko, che nel primo ventennio del ‘900 esplose con un’invenzione fotografica ricca di ottimismo. Salvo poi vivere sulla propria pelle di artista-pensatore la crisi del realismo sovietico e di constatare la lontananza fra le sue immagini piene di vitalità e il dramma quotidiano di un popolo.