La grande musica a Roma
Grandi momenti musicali nella capitale. Il primo è La Damnation de Faust, che al Teatro dell’Opera ha inaugurato la nuova stagione ed è in scena fino al 23 dicembre. La “leggenda drammatica in quattro parti” di Hector Berlioz, rappresentata a Parigi nel 1846, mancava a Roma dal 1955. L’edizione, con Daniele Gatti direttore d’orchestra e la regia di Damiano Micheletto, è un’accoppiata vincente? Certo, la Damnation non è un’opera nel senso classico del termine, quanto una sequenza di affreschi, di quadri emotivi, di situazioni sceniche che la fantasia iperomantica di Berlioz (amore, morte, natura, inferno, paradiso) ha creato liberamente dal Faust di Goethe.
Ci sono ovviamente Mefistofele, Margherita, condannata e salvata, e Faust perduto. Ma al pessimista Berlioz interessa soprattutto narrare la caduta verso il Nulla dell’uomo, la fascinazione dell’immortalità, che poi diventa un paradiso perduto dove per la speranza c’è poco spazio, anche se Margherita verrà salvata. Così si passa dalla visione della natura che pur non appaga Faust, alla sua nostalgia per la religione dell’infanzia, allo stordimento dei sensi, all’amore per la fanciulla candida e al tentativo di liberarla poi dalla morte, sino a finire dannato. Mefistofele ha vinto, più che Dio, secondo Berlioz.
Gatti ha concertato con pignoleria: ne è uscita un’esecuzione musicalmente ricca, a cui l’orchestra ha creduto come pure il cast, per quanto impegnato in una recitazione da film come ha voluto il regista Micheletto. E qui Alex Esposito si è rivelato un cantante-attore di rara agilità e abilità vocale, un diavolo perfetto.
Certo, il regista soverchia libretto e musica, che sembrano a volte mondi che non si incontrano. Eppure, soluzioni estrose non mancano, come la gigantografia dei dipinti fiamminghi a dire il legame tra peccato e morte, il “doppio” infantile di Margherita, il coro in alto come su di un loggione e quasi invisibile, la stessa figura demoniaca. Solo che Micheletto si prende troppe libertà dal contesto musicale e librettistico, per cui si assiste ad uno spettacolo attualizzante l’opera di Berlioz, ma pure, inconsciamente (?), dissacrante. E la musica? Bellissima, perchè Gatti è un direttore di vaglia e coro e cantanti funzionano. Ma, chissà, forse la regia potrebbe servire la musica, e non servirsi della musica.
All’Accademia di Santa Cecilia, poi, mercoledì c’è stata una serata memorabile. Uno dei grandi tenori “di grazia” del nostro tempo, il peruviano Juan Diego Flòrez si è esibito in un concerto finito in un delirio del pubblico. Nonostante il raffreddore, che lo ha costretto ad eliminare l’aria impervia dall’Otello rossiniano, Flòrez è stato magnifico. La voce si è imbrunita, irrobustita, ma le agilità, gli acuti sono rimasti. Il suo è un canto naturalmente nobile, dal fraseggio elegante e dal pathos autentico e coinvolgente. Chi ha ascoltato la sua “Furtiva lagrima” è rimasto stupefatto dal rispetto dello spartito, dalla cordialità della voce, dalla malinconia del timbro e dalla passione con cui Flòrez ha investito la romanza di Donizetti, una delle più belle nella storia dell’opera. Ed è sta ancora il Donizetti del Roberto Devereux il protagonista dell’aria “Come un sospiro angelico“, dove calore e brillantezza hanno rivelato quello che già si sa, cioè che il tenore è un interprete donizettiano ideale. Ma bisogna anche dire che l’orchestra – i violini e gli ottoni! – diretta da Antonio Pappano ha cantato meravigliosamente anch’essa.
Flòrez è poi passato ad Offenbach, esibendosi come cantante-attore spiritoso, a Puccini dal Gianni Schicchi, finendo col giovane Verdi dei Lombardi in un’aria con cabaletta tenera e ruggente. Pappano ha intervallato il tenore con brani sinfonici – Mozart, Rossini, Offenbach, Puccini – e con cori come “Va’pensiero”, suonato e cantato con raro equilibrio. Il pubblico è stato tutto per Flòrez, che ha chiuso con bis spagnoleggianti come “Granada”.