La giustizia vera è il frutto di un’intera società

«Fare» giustizia di comunità è certamente un percorso difficile ma possibile, come tante esperienze già ci testimoniano. Viaggio all'interno del mondo carcerario per una riforma radicale della giustizia. Dalle condizioni di lavoro degli  operatori, all'incidenza dei reclusi per reati legati per droga alla discussione sul regime detentivo speciale dell'articolo 41 bis previsto per i mafiosi.  Seconda parte del dialogo intervista con Salvatore Nasca
Il complesso del carcere di Regina Coeli all'interno della città di Roma. Foto La Presse

Continuiamo, in questa seconda parte, l’intervista a Salvatore Nasca, per 38 anni impegnato nel mondo penitenziario con il ruolo di dirigente esecuzione penale esterna presso diversi uffici (Livorno, Firenze, Palermo, Firenze Siena, Dipartimenti Amministrazione Penitenziaria e Giustizia Minorile e di Comunità).

Un dialogo aperto sulle tante problematiche del mondo carcerario che si dimostra, come sempre, uno specchio della società.

La prima parte si è conclusa con la necessità di promuovere  «una nuova cultura e una nuova pratica della pena, una pena veloce, efficace, in gran parte non in carcere ma nella e con la comunità». Ripartiamo ora dalle condizioni di lavoro di chi opera ogni giorno all’interno delle strutture penitenziarie.

Come viene tutelata l’integrità psicofisica di chi lavora all’interno delle carceri?
Così come è, in quasi tutte le carceri è pesante la vita dei detenuti, ma anche il lavoro all’interno delle carceri è senza dubbio gravoso e difficile, a volte anche troppo. E un elemento che aggrava questa pesantezza e difficoltà è la complessità delle problematiche di molti detenuti di cui abbiamo detto prima. Sono certamente previste forme di tutela dell’integrità psicofisica degli operatori penitenziari ma non sono a mio avviso sufficienti e spesso rimangono sulla carta.

Carenza di personale, spazi angusti, celle sovraffollate, stress dei detenuti creano una situazione di tensione permanente che favorisce aggressività e violenza.

Necessita un diverso percorso formativo per gli operatori nel delicato e gravoso compito che sono chiamati a svolgere?
A mio avviso andrebbe ripensata la formazione del personale, in particolare quello di polizia penitenziaria, più sottoposto allo stress. Andrebbe centrata non sul versante del controllo – sicurezza, pure certamente da non trascurare, ma soprattutto su quello psicologico – relazionale, visto che gli operatori sono chiamati a interfacciarsi con persone con problematiche spesso molto complesse e difficili, ed a farlo mettendo al centro non il mero controllo ma la relazione, il rispetto reciproco, l’empatia.

Quanto incide effettivamente il numero dei migranti sul numero dei detenuti attuali?
Rispetto al totale della popolazione detenuta in Italia, pari a 58.987 unità al 30.09.2023, gli stranieri sono 18.572, il 31,4% del totale: la percentuale è pressoché stazionaria ormai dal 2000, ed è anzi leggermente in calo negli ultimi anni, dato che sconferma la narrazione di tanti media e politici sull’allarme sicurezza causato da una presunta invasione di stranieri delinquenti. Sono più degli italiani, però, gli stranieri in carcere in custodia cautelare (in attesa di giudizio) perché meno degli italiani vengono ammessi agli arresti domiciliari o ad altre forme esterne. La maggior parte degli stranieri sono, inoltre, in carcere per pene brevi, per reati non particolarmente gravi.

I migranti finiscono con più facilità in carcere e ne escono meno agevolmente, fruendo in percentuali più ridotte delle misure alternative alla detenzione.

E quanto incidono sul numero dei detenuti i reati legati al consumo e spaccio di droghe?
Relativamente al consumo e spaccio di droghe, al 31/12/2022 risultavano definiti “tossicodipendenti” il 40,7% di coloro che entrano in carcere, e di questi ufficialmente “certificati” 16.845 detenuti, il 30% del totale. Il numero di “tossicodipendenti” che entra in carcere è, purtroppo, in crescita dal 2006 ad oggi, ed in particolare dopo i due anni di pandemia.

La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Il 34% dei detenuti italiani a fine 2022 era ristretto a causa della legge sulle droghe, che è quasi il doppio della media europea e molto di più di quella mondiale (22%).

Esistono quindi problemi strutturali che vengono scaricati sul mondo della detenzione. Come si può superare questa contraddizione?
La forte presenza di tossico-alcoldipendenti e di reati legati al traffico di stupefacenti evidenzia alcuni elementi che vanno messi in evidenza con precisione. Cominciamo da un prima evidenza:il traffico di stupefacenti andrebbe affrontato diversamente e cioè non concentrandosi sulla lotta al piccolo spaccio, pur necessaria, ma andando a combattere il grosso traffico, e quindi le varie mafie ai livelli alti con un Piano di azione forte, meglio ancora se europeo (e non solo), perché il problema non può risolversi arrestando prevalentemente l’anello più debole della catena, i piccoli spacciatori, spesso anche tossicodipendenti.

L’aumento della tossico-alcoldipendenza anche in carcere andrebbe affrontato con una massiccia e continua opera di prevenzione a tappeto nelle scuole, ma anche in tutti i centri di aggregazione e associazione, sportivi, per anziani, ecc. Anche con metodologie nuove e con lo sviluppo di luoghi di ascolto e sostegno dei tanti disagi (isolamento, ecc.) che tanti giovani ma anche anziani vivono.

Vanno in carcere persone tossicodipendenti che andrebbero curate. In che modo?
Dobbiamo prendere atto che la tossico-alcoldipendenza non può essere curata in carcere e che occorre, perciò, non tanto modificare le normative, che già prevedono la possibilità di scontare la pena all’esterno, ma rafforzare le risorse per allargare la possibilità di percorsi non leggeri e superficiali, ma seri ed efficaci di recupero. Si dice che la legislazione antidroga non ha nel mirino i pesci “piccoli” (né i consumatori), ma i trafficanti; che i tossicodipendenti non devono stare in carcere, ma in trattamento; che bisogna superare il “carcere dei poveracci”. I dati, però, dimostrano che il carcere è pieno di pesci piccoli e spesso molto deboli e marginali.

La tossicodipendenza è diffusa anche tra i detenuti stranieri. In che misura? E cosa comporta in concreto nella gestione carceraria?
Tra i detenuti tossicodipendenti, il 33% è poi anche straniero. L’intreccio tra legge sulle droghe e legge sull’immigrazione penalizza in particolare i migranti, che si trovano così sovrarappresentati nelle carceri, e una volta in carcere le prospettive di integrazione si riducono ulteriormente.

Se per tanti detenuti e tanti tossico-alcoldipendenti abbiamo detto che le disfunzioni del contesto sociale e del nostro Welfare fungono da retroterra a gran parte dei loro comportamenti devianti, per i migranti si aggiunge anche altro, come la mancanza di permesso di soggiorno, il lavoro nero come quasi unica opportunità di reddito lecito, gli ostacoli per ottenere un’abitazione, i bisogni assistenziali che non vengono presi in carico, le discriminazioni e la stigmatizzazione sociale.

Praticamente è come se si creasse un mondo a parte disegnato dall’istituzione detentiva….
Teniamo presente che le persone tossico-alcoldipendenti, le persone straniere e le persone sia straniere sia tossico-alcoldipendenti, in gran parte responsabili di delitti di scarsa pericolosità sociale, sono i due terzi dei detenuti e rappresentano l’area della cosiddetta “detenzione sociale”, quella della popolazione marginale e problematica.

Il carcere si sostituisce così di fatto alla insufficienza degli interventi di welfare ed alle carenze delle politiche di accoglienza, di integrazione ma anche di sicurezza, finendo per confermarsi anche oggi come il luogo di deposito delle persone più deboli, fragili, problematiche di cui la comunità sociale non ha saputo, potuto o spesso anche voluto prendersi cura.

 Cosa fare allora?
Per quanto riguarda in particolare la tossico-alcoldipendenza, in carcere ma anche fuori, è forte la necessità di rafforzare ma anche modificare gli interventi, perché occorre tenere conto di nuove realtà che, intrecciate, diventano di particolare complessità e difficoltà di gestione in carcere, a volte anche drammaticamente: diffusa diversificazione dell’uso di sostanze, frequenti dipendenze multiple, nuove dipendenze (social, azzardo, ecc.), frequente intreccio con disturbi psichiatrici, ecc..

Più in generale, certamente prezioso è quello che viene fatto ogni giorno da tanti: operatori penitenziari, assistenti sociali degli Uffici Esecuzione penale esterna, volontari, enti locali, ecc. Ma non basta perché occorre cambiare, come detto prima, la logica della pena e tradurre questo cambiamento in uno spostamento forte di risorse sulla giustizia di comunità, rafforzando, migliorando e diffondendo le tante buone prassi già esistenti di reti sul territorio (magistratura, Uepe, servizi sociali e sanitari, enti locali, terzo settore, ecc.), non lasciandole più alla buona volontà, spesso eroica, di operatori particolarmente motivati ma investendo in esse in maniera sistematica e forte.

Come valuti l’efficacia del 41 bis contro i mafiosi?
Il 41 bis è stato voluto da Falcone per evitare che i capimafia detenuti continuassero a comandare e gestire i loro affari criminali dal carcere. Purtroppo, a causa di eccessi di garantismo, diventò legge solo dopo che la mafia, che ha sempre avversato questa misura con tutte le sue forze, organizzò proprio dal carcere, e proprio per mandare un messaggio contro il 41 bis, l’uccisione di Falcone, Borsellino, Morvillo e degli agenti delle scorte.

Non si tratta di una misura punitiva, ulteriormente afflittiva rispetto alla pena, che sarebbe incostituzionale, ma di una misura preventiva il cui scopo è recidere i rapporti tra i mafiosi detenuti e le loro organizzazioni fuori dal carcere: l’obiettivo è che il boss in carcere non possa continuare a delinquere, e non possa neppure creare nuovi affiliati in carcere, come avveniva tranquillamente fino agli anni ’90.

La diversità di trattamento è, perciò, non solo un principio forte dell’ordinamento penitenziario, ma, nel caso specifico, giustificata dal fatto che siamo davanti a rischi concreti per l’ordine e di sicurezza pubblica.

L’applicazione di tale misura, secondo alcuni critici, rappresenterebbe un’inutile pena afflittiva. Cosa ne pensi?
Non penso affatto che tale regime sia una pena afflittiva supplementare, e quindi incostituzionale. È unicamente il modo più efficace per impedire ai mafiosi di perseguire i loro scopi criminali anche dopo l’arresto, che comporta un particolare isolamento con una riduzione (non eliminazione) di contatti con parenti, avvocati ed altri detenuti, finalizzata ad evitare scambi criminali esterni ed interni. È per questo che i mafiosi e chi, direttamente o indirettamente, li appoggia vogliono il suo svuotamento.

Non è inoltre una condanna a vita perché è compito dei magistrati valutare nei singoli casi fino a quando è necessario mantenere il regime del 41/bis.

Le limitazioni previste sono, inoltre, state ammorbidite negli anni, allargando progressivamente le possibilità di contatti (ora d’aria, colloqui senza vetro, ecc.), tanto che molti magistrati segnalano il fatto che sta perdendo di reale efficacia.

Il 41bis è stato poi esteso ai terroristi (oggi solo quattro), e questo è forse a mio avviso l’unico punto che si potrebbe rivedere, pur essendo vero che anche i terroristi avevano “utilizzato” (e potrebbero farlo) i contatti in carcere per organizzare attività criminali.

 Resta perciò necessario contro la mafia?
L’art. 41 bis è, a mio parere, uno strumento irrinunciabile nella lotta alla mafia, e lo confermano i risultati ottenuti in questi anni in termini di isolamento di tanti boss mafiosi dalla loro organizzazione.

Quanto alla disparità di trattamento secondo alcuni insita nel 41bis, osservo che uno dei principi dell’Ordinamento penitenziario è la cosiddetta “individualizzazione del trattamento”, e questo significa che sia previsto e fondamentale differenziare il trattamento dei detenuti in relazione alla diversità dei condannati e delle loro specifiche problematiche. Nella stessa direzione va anche il sempre prezioso richiamo di don Milani (“non c’è peggiore ingiustizia che trattare allo stesso modo situazioni diseguali”). Di conseguenza, per i soggetti marginali, per esempio, l’obiettivo del trattamento deve essere il reinserimento tramite misure alternative e altri strumenti, mentre per i soggetti non marginali il trattamento deve puntare ad altro (de-inserire da logiche criminali, responsabilizzare, riparare, ecc.), motivo per cui risulta corretto oltre che necessario un trattamento specifico anche per la criminalità organizzata come è l’art. 41bis.

Di conseguenza, ciò di cui si potrebbe ravvisare l’opportunità sarebbe non di eliminare o alleggerire l’art. 41bis ma piuttosto di renderlo più adeguatamente individualizzato, e, perciò, per esempio: – ridargli il rigore che aveva all’inizio, soprattutto per i boss; – arricchirlo con interventi di responsabilizzazione e di riparazione nei confronti delle vittime e della collettività (restituzione, attività gratuite da svolgere in carcere, ecc.); – prevedere forme sempre rigide ma più idonee per i terroristi così come per la piccola manovalanza (per esempio i giovanissimi reclutati dalla mafia per mancanza di alternative potrebbero essere aiutati ad intraprendere un percorso di responsabilizzazione e recupero).

Sulla base della tua esperienza, come vedi l’oggi ed il futuro della giustizia e in particolare della pena?
Come dicevo prima, con la Riforma penitenziaria del 1975 siamo passati da una pena finalizzata alla punizione ad una pena finalizzata al trattamento ed alla rieducazione. Così si sono potuti avviare tanti percorsi di recupero, anche tramite le misure alternative ed il coinvolgimento del territorio (enti locali, servizi, volontariato, ecc.). Tutto è stato però sempre centrato sul carcere e sulla persona condannata.

Piano piano però è cresciuta la consapevolezza da una parte che il carcere non fosse in grado di recuperare, fosse spesso degradante e a volte anche disumano, e d’altra parte che non fosse giusto continuare a considerare solo i diritti e le esigenze dei condannati e ad ignorare quelli delle vittime e della collettività. Così hanno iniziato a diffondersi pratiche di giustizia riparativa, entrata di recente pure nella normativa, di una giustizia cioè non più centrata sul reo ma sul raccordo tra reo e vittima con sempre più attività riparative, di mediazione penale, ecc.

Queste esperienze hanno aperto piano piano ad una dimensione più ampia, che è quella della giustizia relazionale e di comunità, di una giustizia cioè centrata sulle relazioni, sul “noi”, non più perciò “bilancia” fredda e anonima ma “ponte” che favorisce l’incontro, la cura, la responsabilità reciproca

La sfida attuale è perciò passare da iniziative riparative – relazionali e da reti tra i diversi soggetti, spesso ancora episodiche, ad un pieno coinvolgimento – responsabilizzazione delle comunità in tutte le sue componenti.

Quali sono, infine, i punti cardine di una riforma del sistema detentivo in base alle evidenze che hai segnalato?
Da un punto di vista normativo, sarebbe necessario uno sviluppo della pena che preveda, in estrema sintesi:

  • il carcere solo per reati gravi (criminalità organizzata, terrorismo, ecc.),
  • le sanzioni di comunità con risorse adeguate per i reati medi;
  • altre pene come quelle pecuniarie o a contenuto prescrittivo per i reati leggeri,
  • la depenalizzazione, con sanzioni amministrative serie, per i reati minori.

Ma le modifiche normative non sono sufficienti perché c’è il rischio di cambiare le forme ma non la sostanza senza un cambiamento culturale e di atteggiamenti delle istituzioni e dei cittadini.

Per questo per una reale Giustizia di comunità mi pare necessario riprendere il trinomio Libertà, Uguaglianza, Fraternità che richiede di essere attualizzato con una pena: 1) da scontare solo in casi eccezionali in carcere e prevalentemente in libertà, però con una libertà non tanto da (il carcere) quanto per (impegno e responsabilizzazione serie); 2) che consideri le esigenze di tutte le parti sullo stesso piano e che coinvolga perciò tutti, rei, vittime, sistema giustizia, comunità sociale (uguaglianza); 3) che si concretizzi non in forme repressive e stigmatizzanti e neppure in forme di indulgenzialismo – buonismo sterili (per citare Benedetto XVI), ma al contrario sviluppando interventi di recupero, riparazione e ricomposizione dei conflitti come tasselli dentro una cultura e pratica di rispetto, dialogo, reciprocità (fraternità)

«Fare» giustizia di comunità è certamente un percorso difficile ma possibile, come tante esperienze già ci testimoniano. Richiede che ciascuno, certamente le Istituzioni ma anche ogni cittadino, dia il proprio contributo per far crescere nelle comunità reali (città, quartieri, gruppi) semi di attenzione all’altro e di responsabilità reciproca, e favorire così comunità vive e coese e insieme “giuste” e sicure. Unico modo, probabilmente, per ridurre anche il numero di detenuti, e più in generale l’isolamento ed il disagio personale e sociale diffusi, che sono all’origine di tanti comportamenti delinquenziali.

Qui il link alla prima parte dell’intervista

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