La giustizia in un verdetto
Ritmo incalzante. Tensione sempre al massimo che tiene incollata la platea. Parole appassionate che fendono l’aria taglienti come lame. E un gruppo di interpreti compatti e affiatati, straordinari ciascuno nella propria caratterizzazione del personaggio. Da elogiare in blocco. Capofila Alessandro Gassman, il quale, nella messinscena de La parola ai giurati, conferma oltre all’innegabile bravura d’attore, quella di regista dalla mano sicura e dal fiuto fine per la scelta coraggiosa di un titolo di impegno civile e sociale difficile in partenza, ma alla prova della ribalta assolutamente vincente. E attualissimo.
Il testo di Reginald Rose, reso celebre dal film di Sidney Lumet con Henry Fonda (e, ultimo remake, il recente 12 di Nikita Mikhalkov), è un dramma giudiziario che vede coinvolti dodici giurati di diversa estrazione sociale, età e origine, chiusi in camera di consiglio per decidere del destino di un sedicenne ispano-americano accusato di parricidio. Della sua colpevolezza tutti sono convinti. Tranne uno. Questi pian piano incrinerà le certezze degli altri componenti insinuando in loro il principio secondo il quale una condanna deve implicare la certezza del crimine al di là di ogni ragionevole dubbio. Portandoli a ricostruire nel dettaglio i passaggi salienti del processo, le sue deduzioni capovolgeranno il verdetto. In questa convivenza forzata e claustrofobica emergeranno, tra risvolti psicologici e storie private, razzismi latenti e moralità perbeniste, gli aspetti comportamentali più contraddittori e sfaccettati dei dodici uomini in una competizione che non sembra avere fine, lasciando infine in campo un’umanità più vera e solidale. Dove all’urlo si contrappone l’ascolto, ai pregiudizi il rispetto dell’altro e della vita. Se Lumet ne fece all’epoca una regia molto teatrale, Gassman nell’impianto realistico ha puntato su una visione cinematografica ricostruendo un’ambientazione degli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Il dibattito si svolge attorno ad un tavolo, dentro una stanza con tre finestroni e un bagno illuminato a tratti dietro una parete trasparente, luogo di ulteriori e accesi confronti. Un ulteriore velo occupa l’intero boccascena sul quale scorrono proiezioni e rumori di fenomeni atmosferici, di metropolitana in corsa, e il disegno dell’abitazione dell’ucciso per la ricostruzione del caso. Facile capire che il ruolo dell’insinuatore del dubbio è lo stesso Alessandro, il quale gioca con pacatezza e tenacia. Perché alla fine, nel testo, vince chi tesse con pazienza. Spettacolo necessario, imperdibile, che per 140 minuti emoziona e avvince come un thriller, La parola ai giurati ha già raccolto premi e consensi. E continua a riempire i teatri.