La gioia del Correggio
Se c’è un pittore della gioia, questi è Antonio Allegri, detto Correggio, dalla cittadina emiliana dov’è nato. Tutt’altro che un provinciale, si nutre di Raffaello, Michelangelo e Leonardo: dei giganti, ma anche dei colleghi della Padania o del Veneto. Non imita nessuno: troppo geniale per farlo, troppo intelligente e sereno. Non eccede mai, nemmeno quando il soggetto lo richiederebbe. La Pietà (1525, Parma, Galleria Nazionale) è una sacra rappresentazione distillata con colori dolci, figure rifinite, occhi senza lacrime ed un dolore quieto, perché il corpo chiaro del Cristo sta per risorgere. Anche il Martirio dei santi Placido e Flavia (sempre a Parma) è un teatro di gesti fiduciosi, volti pacificati davanti ad una natura dalle tinte azzurro-marrone riposanti. Correggio è equilibrato: non forza il sentimento come faranno i suoi seguaci nell’età barocca, è patetico, al punto giusto. Armonioso lo resta, anche quando – sembra una contraddizione – è sfrenato. Negli affreschi della Camera della Badessa a Parma (1519), inventa un pergolato da cui occhieggiano putti scatenati, vestiti della luce e del colore estivo, in un moto perpetuo pieno di vivacità. Sostando nel piccolo ambiente, ci si sente invadere da una felicità senza complessi o controlli. Innocente, come questi bambini sotto la volta ad ombrello, da cui scende un faro di luce allegra che anima i simboli e i miti, come Diana vergine e cacciatrice dipinta sopra il caminetto. Correggio la vita la ama, e la dice, tutta: non ha problemi. Perciò affronta il repertorio classico con naturalezza e originalità. La Danae della Galleria Borghese a Roma (1533), soffusa di luce argentata, che dal paesaggio azzurro entra ad irrorare la ragazza sorridente, è un capolavoro di interpretazione del mito. Correggio non ne fa una parabola morale, ma lo presenta così com’esso è, nelle intenzioni degli antichi: una felicità di essere al mondo, di goderne, così come lo è la tela di Ganimede (Vienna, Kunsthistorisches Museum), dove il ragazzo sale al cielo, aggrappato all’aquila, volando dentro uno spazio azzurro, velato dal calore estivo. Correggio dà così alle scene un tono di familiarità colloquiale, che unisce il realismo padano al sentimento classico di bellezza eterna, dentro una atmosfera di cordialità. La Madonna della scodella (Parma, 1530) è una versione affettuosa del tema consueto del Riposo durante la fuga in Egitto. Il bambino ridente indica la scodella alla madre gioiosa, insieme a Giuseppe, mentre due angeli volano tra nubi festose. Correggio gioca con i colori estivi – rossi azzurri gialli -, rende tenero il quadro familiare, con il divino a portata di mano. La celebre Madonna di san Girolamo (Parma, 1528 circa) è una sacra conversazione animata da gesti confidenziali (santa Caterina appoggiata al bambino), dalla vivacità dell’angelo col libro, mentre la Vergine, bellezza padana placida, sorride, bagnata dalla luce di un meriggio affocato. Nella Notte a Dresda (1530) il pittore fa dell’alone fra il bambino e la madre il fulcro di un colloquio muto, alto e semplice, come la luce che se ne diffonde. Essa rompe il buio, e illumina di timore o di sorpresa i pastori. Ma dove la gioia diventa entusiasmo quasi frenetico è nelle cupole affrescate del duomo di Parma e della chiesa di San Giovanni Evangelista. Pose plastiche e volti idealizzati richiamano Michelangelo e Raffaello, certo. Correggio vi immette il senso del volo, che sfonda le cupole, squarcia un cielo immenso: nel suo vortice vengono risucchiati gli angeli e i santi, ora sospesi nel vuoto ora affondati sulle nubi. Egli apre una visione del paradiso contemplato già da questa terra, come da lui impareranno gli artisti fino all’Ottocento e oltre. In esso esplode una vitalità irrefrenabile. L’Assunta, nel duomo, vede un lume accecante al centro (il Padre?) verso cui corre, portata dagli angeli, estasiata e fremente. Un dipinto che sembra una spiegazione visiva dell’inno Magnificat. A San Giovanni, un Cristo biancoroseo sale dentro un sole dorato punteggiato di volti angelici, rientrando nella Trinità. È una visione dove un colore ricco, una luminosità morbida e acuta comunicano un senso di tripudio: esso, attraverso le ombre che scolpiscono potentemente i corpi, scende in basso a colmare gli occhi dell’osservatore. Eppure, tre anni prima a Roma – siamo nel 1530 – c’era stato il terribile Sacco, che aveva scioccato tutti gli artisti, compreso il conterraneo Parmigianino. Correggio ne sembra indenne. Forse, è nel grande amore per la vita, che dura oltre il dolore, il segreto della sua arte calda e festosa. Un equilibrio sottile – lo stesso del primo Rinascimento – che, in lui, non si è mai spezzato.