La gioia del banchetto
Sedersi a tavola assieme, tra amici o in famiglia, c’è forse cosa più piacevole? Lì: dove il cibo fa la sua parte, fa la sua parte il vino, la fa la tavola imbandita, la tovaglia le stoviglie e i bicchieri, la fa l’ambiente attorno, preparato con cura. Ma soprattutto fa la sua parte l’amicizia, che scalda i cuori e li fa ringiovanire; fa la sua parte la contentezza del trovarsi assieme, con le gambe sotto la tavola, confortati dalle delizie che escono della cucine, resi giocondi dal vino che rincuora e ammalia, che scaccia le nubi dalla testa. Il banchetto non è una semplice pratica alimentare per sfamarsi o ingurgitare quantità spropositate di cibo.
È un momento radicato nella sacralità della fratellanza, che a tavola innesca confidenze, alimenta chiacchiere colorite e amene, accende discorsi profondi, impregnati d’intimità e di franchezza, perché a tavola si smantellano le difese. E si gioisce dentro al cuore con le parole del Salmo: «Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!». Già nell’antichità il banchetto era amato sia dagli dèi sia dagli uomini: alle volte gli dèi stessi s’univano ai banchetti degli umani. Dipinti su vasi greci ed etruschi riportano le usanze conviviali degli antichi che, nel corso del pasto in comune, si concedevano al piacere del bere, conversavano, intonavano canti, a volte danzavano e giocavano assieme.
La Bibbia racconta che, quando Abramo venne visitato dai misteriosi tre inviati di Dio presso le Querce di Mamre, consumò con loro un banchetto: impastò focacce, preparò un barbecue di tenero vitello, prese latte acido e latte fresco. Poi i quattro si sedettero a mangiare assieme all’ombra della quercia, e in quella confortante intimità Dio si rivelò con solennità. Sì, perché c’è sempre un aspetto di solennità legato al consumare assieme un banchetto. Gli ebrei celebrano a tavola, in famiglia, il momento culmine della Pesach, la loro pasqua: consumano assieme la cena seguendo il rituale d’una progressione ordinata di cibi e di preghiere – che prende il nome di seder (parola ebraica che significa ordine) – durante il quale narrano l’antica storia del liberazione dall’Egitto per mezzo del grandioso intervento divino. Il profeta Isaia raffigura i tempi messianici con questo “menù”: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati».
E Gesù di Nazareth passò a tavola il momento più intimo e solenne con i suoi discepoli, in quella che è conosciuta come l’Ultima Cena: ma chissà quante volte, prima di quella sera, passò a tavola con loro momenti indimenticabili. È vero che il banchetto si associa per sua natura all’idea di ospitalità e di dono. Ma è pur vero che a tavola non si può stare con nemici, con chi nel cuore rimugina rancori, ammassa problemi o trama perfidie: lo richiede la sacralità stessa del pasto in comune. Anche Giuda lasciò il pasto con Gesù e gli altri. Il momento della riconciliazione, quando essa c’è, precede il banchetto: esso ne suggella il raggiungimento, fa da corona al suo successo.
Il cibo sembra aver a che fare anche con la filosofia. Nel passato, di fronte a una tavola imbandita, Socrate dialogava con i suoi discepoli, Platone innescava le straordinarie riflessioni del Simposio, e Voltaire i suoi romanzi filosofici. Ed anche ora, al recente Festival della Filosofia (12-14 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo) il filosofo Tullio Gregory, che è anche un valente gourmet, ha elogiato il legame tra riflessione e cucina facendosi animatore degli apprezzatissimi “menù filosofici”. «Il cibo – dice Gregory – è un prodotto culturale, una forma di attività dell’uomo che lo distingue dagli animali, i quali non cucinano. Siamo la civiltà del cotto» e propone «la riscoperta delle tradizioni della tavola, intesa come luogo del “convito” moderno».
C’era un abitudine molto simpatica in uso presso gli antichi greci: i convitati si riunivano presso la casa di uno di loro portando con sé una canestro di vimini (detto spyris) contenente dei cibi pronti. Questi banchetti erano perciò detti apò spyrìdos, cioè alla cesta. Una volta riuniti a casa dell’ospite, i convitati si mettevano a loro agio: secondo le usanze dell’epoca si toglievano i sandali, si lavavano i piedi, si ornavano il capo con corone di fiori o di foglie, poi si sdraiavano su lettini. Quindi consumavano il cibo che ognuno aveva portato, e bevevano, discorrendo amenamente o filosofeggiando. Un’usanza questa che, a parte le modalità proprie dell’epoca, vale ben la pena di rivitalizzare. Ve lo dico per esperienza personale.