La “gestazione per altri” e il “terzo” dimenticato
L’approvazione definitiva, lo scorso 16 ottobre, della modifica in materia di perseguibilità del reato nell’ambito della legge sulla procreazione medicalmente assistita, non fa che confermare l’illiceità della pratica della cosiddetta maternità surrogata, che continua ad essere considerata un delitto, previsto dall’art. 12, 6° comma della legge n. 40 del 2004.
La condotta di chi “in qualsiasi forma” realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità” è punita con la reclusione da tre mesi fino a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.
Ma ora i fatti inerenti alla surrogazione di maternità sono punibili, secondo la legge italiana, anche se commessi dal cittadino italiano all’estero.
Un’estensione della punibilità che naturalmente fa discutere per due evidenti ragioni. La prima: l’estero costituiva ad oggi il “porto franco”, nel quale concludere gli accordi e dare esecuzione al contratto con la gestante, per poi portare in Italia il bambino nato con la GPA.
La seconda: l’argomentazione per la quale si afferma che la gestazione per altri perderebbe il suo disvalore se effettuata per “scopi solidaristici”. A conferma di questa chiave di lettura, si fa notare che in un diritto penale costituzionalmente orientato diventa imprescindibile la differenza fra la maternità surrogata solidale e analoga pratica posta in essere per fini commerciali.
Un’esemplificazione la si adduce nella scelta operata dal legislatore proprio in Italia, allorché ha riconosciuto la liceità del trapianto di rene tra vivi (legge n. 458/1967), nonostante il divieto posto dall’art. 5 cod. civ. per gli atti di disposizione del proprio corpo che inducano una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Da qui, lo spazio prospettato per il riconoscimento di una libertà di scelta solidale, che diverrebbe condizione sufficiente per riqualificare una condotta, quale quella della gestazione per altri, secondo una presunta liceità.
Ma la riflessione non può tacere né omettere un rilievo ulteriore: “l’oblio del terzo”, il bambino, anch’egli protagonista silenzioso accanto ai genitori committenti e alla gestante. La sua riduzione ad oggetto del contratto o di un mero accordo fra le parti ne segna la perdita di identità e dignità alla stregua di una res.
La vita di un essere umano, reificata in qualcosa, diventa “materia disponibile” per le parti coinvolte, nel decisivo apporto della tecnologia.
La voce di alcune esponenti femministe ha fatto ricorso in questi giorni a parole forti a difesa delle donne, in nome di nuove forme di schiavitù e sfruttamento, specie per coloro che sono costrette dalla povertà a prestarsi a una pratica disumana e disumanizzante fino ad essere accostata alla prostituzione perché, in entrambi i casi, è la donna ad essere venduta.
Si potrà obiettare che resta sempre l’autodeterminazione di chi decide di gestire il proprio corpo, fino a “offrire” il proprio utero. Ma così non è: qui la donna non è il suo organo, né “l’utero un forno”, come affermato di recente con forza da Anna Finocchiaro, esponente della sinistra; la donna è una persona integrale che sarà totalmente coinvolta nell’accogliere in sé una vita, quella di un bambino, anch’egli, nella sua umanità, titolare di diritti.
Dunque, non oggetto, ma soggetto meritevole di tutela; la stessa riconosciuta dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, ratificata in Italia con la legge n. 176/1991). Difficile pensarlo come un “prodotto” effetto di un accordo, la cui vera essenza non muta, pur nella natura eventualmente solidale della GPA: resta infatti la disponibilità di cataloghi finalizzata alla scelta dei gameti, la condizione della donna gestante che deve sottostare a cure mediche dolorose e invasive, un cambio degli stili di vita richiesto dalla gestazione, ed evidentemente un ineludibile “rimborso spese”, senza dimenticare rischi fisici e psicologici.
Il bambino avrà dunque un “prezzo” da pagare, come qualunque prodotto su un mercato, e ciò a fronte di un “bene indisponibile” qual è la vita, e in risposta a un mero desiderio che una coppia, nell’impossibilità (ma non solo) di concepire un figlio, intende soddisfare in forza di un accordo.
Già in varie pronunce la stessa Corte costituzionale ha escluso la configurabilità di un “diritto alla genitorialità” e ha riconosciuto nella pratica della GPA un’offesa “intollerabile” alla dignità della donna, tanto da ribadire il convincimento espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione: il divieto di surrogazione di maternità (art. 12, 6° comma, l. n. 40/2004) è «qualificabile come principio di ordine pubblico» (C. cost. n. 33/2021).
Se un diritto è tale nella misura in cui sussiste un obbligo all’adempimento, tutt’altro è il desiderio, che si esaurisce nella sfera individuale di chi ne è portatore, portatrice, e privo di qualsivoglia ricaduta sociale, posto che né la collettività né le istituzioni sono tenute ad assumerne l’impegno nella realizzazione.