La genitorialità è una funzione politica
E così giungemmo all’ultimo incontro della seconda edizione del corso! Ricordo perfettamente l’eccitazione che provai quando Città Nuova mi chiese di progettare la prima edizione: era il 2021, stavamo quasi uscendo dalla fase acuta della pandemia, in tanti eravamo molto spaventati e disorientati ed avevamo un forte bisogno di ritrovarci, di stare insieme, di sentirci appartenenti; in molti ci interrogavamo sulla condizione esistenziale e psicologica che sarebbe succeduta alla pandemia. C’erano tanti interrogativi: ce la faremo? andrà davvero tutto bene? come ne usciremo? e i nostri figli? Come spesso accade, la presenza di un avversario contro cui schierarsi ci ha compattato ed ha conferito quel senso di solidarietà che è funzionale all’impresa comune.
Due anni fa il nemico da combattere è stato il covid, diremmo; ma sbaglieremmo: il vero mostro che incombeva era quel senso di solitudine e di precarietà che il virus stava solo svelando ma che, da molti decenni prima, aveva iniziato a pervadere i nostri tessuti sociali e le nostre menti.
Autorevoli pensatori hanno provato a spiegarci che il vero male che sta dilagando nei sotterranei delle nostre coscienze è il nichilismo, corrente che il filosofo e psicologo Galimberti (rifacendosi a Nietzsche) ha definito un «fenomeno di ritorno», e di cui ha evidenziatol’impatto devastante sulle nuove generazioni. Da decenni, e da più parti, siamo invitati a riflettere sul fatto che i giovani sono coloro che scontano di più degli altri la percezione di assenza di futuro, con conseguente progressiva e sempre più profonda insicurezza, «condannati a una deriva dell’esistere che coincide con il loro assistere allo scorrere della vita in terza persona» (Galimberti 2008).
Credo e constato quotidianamente che in realtà il nichilismo di ritorno abbia invaso anche noi adulti, e che si sia tradotto in sfiducia sociale e in senso di smarrimento, amplificando psicopatologie pervasive tra cui i disturbi dell’umore, e questo già prima del covid. Basti pensare che già prima della pandemia la depressione era classificata dalla Organizzazione mondiale della Sanità come la prima causa di disabilità a livello globale, e che in Europa si stimava che più di 40 milioni di persone, in tutte le fasce di età, vivevano con la depressione (dato Oms 2019); in Italia essa aveva un’incidenza di circa il 5,5% ovvero riguardava 3,5 milioni di persone (dato Istat 2019). Si tratta di dati emblematici del malessere esistenziale odierno: un treno a cui dobbiamo fare cambiare rotta se vogliamo immaginare un futuro migliore per noi e per le prossime generazioni.
Il filosofo Mancini ha indicato una strada maestra da percorrere: investire in accoglienza, ovvero stimolare atteggiamenti e pratiche di solidarietà in grado di riuscire a fare sperimentare senso di appartenenza. Non abbiamo altra scelta se non quella di imparare a riscoprire il valore dei legami, anche in assenza di un nemico da combattere. Si tratta di un processo culturale che inevitabilmente passa attraverso percorsi educativi stabili non solo di bambini e ragazzi ma anche (o forse innanzitutto) dei loro genitori.
Da fermo sostenitore che siamo esseri relazionali e che il nostro cervello è un organo sociale, a conclusione di questo corso raccomando a tutti di lasciare l’errata convinzione che occorra chiedere aiuto solo quando i nostri figli presentano il conto con problemi o sintomi (magari allora sarà già tardi): è la prevenzione che è necessaria, poiché solo una cultura nuova, la cultura cura delle relazioni, può contrastare la deriva solipsistica in cui stiamo cadendo. A meno che non vogliamo continuare soltanto a contare i danni prodotti dalla società del capitalismo amorale che vorrebbe fare dell’individualismo e del profitto personale l’unico valore per cui vivere (una grande bugia, lo sappiamo, ma architettata così bene da apparire l’unica verità), «l’accoglienza è l’unica strada per ritornare umani» (Mancini 2017).
Spero che il corso che tra qualche giorno concluderò abbia stimolato in qualcuno la sana rabbia per non accettare di sentirsi né rassegnato né impotente, e per attivarsi nel cantiere-mondo come cittadino protagonista e non come vittima di un sistema immutabile.
Qui il piano del corso proposto con Città Nuova
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