La fuga della Fiat
Siamo arrivati all’esito amaro di una vicenda la cui conclusione pendeva da anni come una spada di Damocle: la Fiat, Fabbrica italiana automobili Torino, si trasforma in FCA, Fiat Chrysler automobiles, azienda dalla sigla poco felice, con la sede legale ad Amsterdam, la sede fiscale nella più conveniente Londra e quotata alla borsa di New York: Torino, la città in cui è nata e dove ha prosperato per oltre mezzo secolo, sembra rimanere solo un sito di produzione come tanti.
Possiamo prendercela con Marchionne e gli Agnelli? Se li consideriamo quali persone con sentimenti e impegni morali verso i figli e i nipoti di quanti con dedizione, ingegno, cervello e braccia ne hanno fatto la fortuna, forse sì; invero di impegni morali gli Agnelli ne avrebbero anche verso tutta la nazione, che per tanti decenni ha dato loro fiducia sostenendo con il denaro dei cittadini le loro iniziative industriali.
Viviamo però nel capitalismo globale, orientato dalle convenienze economiche e limitato dagli impegni contrattuali, e purtroppo lo Stato italiano si è dimenticato di farne sottoscrivere alla Fiat, nei decenni in cui concentrava nella costruzione dei suoi stabilimenti in giro per l’Italia buona parte delle risorse dedicate alla ricerca e all'innovazione industriale; avrebbe dovuto impegnarla alla restituzione dei finanziamenti se non avesse mantenuto i posti di lavoro legati alle strutture finanziate, per tutti gli anni dell’ammortamento di quanto veniva costruito.
Non avendo oggi nulla di contrattuale da rispettare, la Fiat/FCA, dopo aver inghiottito (o forse essendo stata inghiottita da) un boccone più grande di sé, paga imposte ove ne chiedono di meno, mantiene la sede legale dove è più facile operare e favorisce il lavoro nei siti produttivi più convenienti; forse però facendo l’errore di trascurare la creatività e l’ingegno di quanti nel torinese ne hanno fatto la fortuna.
In questo ambito, sarà tutta colpa della FCA se i siti italiani non saranno tra i primi a essere utilizzati in pieno? Parte di responsabilità sarà della politica, se non saprà velocemente sveltire la burocrazia, riformare la giustizia, ridurre la spesa pubblica.
E una responsabilità la avrà anche il sindacato se si arroccherà su “diritti acquisiti” che frenano la produttività, dimenticando che essi erano stati ottenuti in periodi di vacche grasse, in cui non vi era competizione nel lavoro, dimenticando anche che l’Italia è adesso nell’euro, che non permette di farsi perdonare le inefficienze imboccando la strada della svalutazione competitiva, che riduce il costo del lavoro perché si riduce automaticamente gli stipendi di tutti, senza lasciare neppure la soddisfazione di far scioperi di protesta.