La fraternità nel bene
Nel dibattito condotto dalla politologia contemporanea si sta facendo strada l’interesse per il tema della fraternità. Dopo avere affrontato, col prof. Filippo Pizzolato (Città nuova n. 15-16/ 2003), questo argomento in relazione all’ordinamento giuridico italiano, entriamo, col prof. Francesco Viola, ordinario di filosofia del diritto all’Università di Palermo, nel campo della filosofia giuridica e politica. Il prof. Francesco Viola ha svolto ricerche sulla storia e l’ermeneutica del pensiero giuridico, sul concetto di autorità, sui diritti dell’uomo e l’etica politica. Fra le sue pubblicazioni segnaliamo: Identità e comunità. Il senso morale della politica (Ed. Vita e Pensiero, 1999) e Diritto e interpretazione. Lineamenti di ermeneutica giuridica (con G. Zaccaria, Ed. Laterza, 2001). Prof. Viola, nella filosofia giuridica e politica contemporanea troviamo pensatori che abbiano in qualche modo approfondito il principio di fraternità? “John Rawls, uno dei maggiori pensatori del Novecento in questo campo, nel suo Una teoria della giustizia, richiama la fraternità a proposito del suo “secondo principio di giustizia”, per cui le ineguaglianze sociali ed economiche sono giustificate solo se implicano dei vantaggi per tutti e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti. Rawls nota che questo “principio di differenza” fornisce un’interpretazione del principio di fraternità e così commenta: “il principio di differenza sembra corrispondere al significato naturale della fraternità: cioè, all’idea di non desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene”. Secondo Rawls solo in tal modo la nozione di fraternità può essere eretta a nozione politica fondamentale accanto alla libertà e all’eguaglianza e così riscattata dall’oblio in cui è decaduta”. Rawls dunque utilizza la fraternità come uno dei princìpi in base ai quali organizzare la società politica? “Esattamente, ma con qualche precisazione. Egli sostiene che si può pensare la fraternità in modi non riducibili ai buoni sentimenti e ai legami affettivi, di per sé poco confacenti alle teorie della democrazia e della giustizia. E ci dice che la nozione naturale di fraternità sta nel prestare attenzione a coloro che stanno peggio in riferimento ad un contesto unitario di gruppo, esemplificato dal paradigma della famiglia. L’amore tra fratelli può assumere il volto della piena reciprocità, dell’aiuto scambievole in un orizzonte di parità e, conseguentemente, del mutuo vantaggio. Questi fratelli sono liberi dal dominio paterno, uguali in dignità e in qualche modo moderatamente interessati ognuno al bene dell’altro. Solo per quest’ultima caratteristica conservano ancora un certo riferimento alla famiglia. “Non dimentichiamo che si sta parlando di fraternità in una società che ha abbandonato l’idea della paternità, come osservava Tocqueville in Democrazia in America: nel diritto successorio la fine della paternità è segnata dal tramonto del maggiorascato a vantaggio del diritto successorio egalitario. Esso determina una rivoluzione nella proprietà, modificandone la struttura, e induce alla contesa tra i fratelli che ap- paiono naturalmente portati all’uniformità, ma non all’unità”. La scomparsa della figura paterna, dunque, lascerebbe i fratelli privi di un riferimento unitario, e dunque in preda ad una competizione individualistica? “Esatto. In questo contesto si potrebbe dire, con il filosofo della politica Jon Elster, che il segno residuo della fraternità consiste proprio nell’invidia, che Elster ha considerato come il “cemento della società”. Infatti per invidiarsi non è sufficiente l’eguaglianza, ma occorre qualche comunanza. Paradossalmente, maggiore è la comunanza, tanto più grande sarà l’invidia”. Ma allora, per chi non ammette la fraternità originaria fra gli uomini, basata sul riconoscimento di un Padre, risulta impossibile vivere la fraternità? “Il rifiuto di questa “fraternità di origine” non chiude tutte le possibilità all’accettazione di un altro tipo di fraternità, che potremmo chiamare “fraternità di risultato”: ci si considera fratelli, cioè, perché si vogliono perseguire gli stessi beni e gli stessi valori. La fraternità di origine richiede una fondazione ontologica, basata sull’essere; quella di risultato richiede una fondazione pratica, basata sul fine che si vuole raggiungere insieme e che non si può raggiungere se non insieme”. È certamente possibile riconoscere la figura di Dio Padre – un Padre che è amore e non despota – senza per questo dover costruire una società autoritaria: che cosa ne pensa? “Personalmente sono convinto che il concetto di fraternità richieda una coerente fondazione ontologica: che sia necessario, cioè, riconoscere una comune paternità. Ma poiché molti nostri contemporanei non hanno questa convinzione, si apre il problema di come dare realizzazione, insieme a loro, alla fraternità. Ecco allora che assume una grande importanza la fondazione pratica, basata sul fatto che, lavorando insieme per lo stesso scopo, possiamo vivere la fraternità in modo implicito, ma pur sempre reale; in questa prospettiva, è il fine che ci rende fratelli; in tale senso – e vale soprattutto per coloro che non ammettono una fraternità originaria – fratelli si può diventare, e in maniera profonda e radicata”. Come dare applicazione concreta alla fraternità, senza cadere nelle trappole dell’individualismo e dell’egualitarismo? “Bisogna rendersi conto che il diritto moderno, per varie ragioni, s’è costruito mettendo fra parentesi l’idea di fraternità: esso regola i rapporti fra persone considerate estranee fra loro. Penso però che l’idea di fraternità continui ad essere presente, anche se bisogna cercarla altrove, “nascosta”, per così dire, sotto altri termini. Un primo passo consiste allora nel trovare le nozioni capaci di realizzare la fraternità nella vita pratica. “Una di queste nozioni, che mi sembra di grande rilievo, è introdotta da Tocqueville: egli osserva che la democrazia ha messo in luce un’idea che l’epoca aristocratica aveva, al contrario, nascosto, quella di “simili- tudine”. La democrazia apre le porte della vita sociale all’idea della somiglianza universale, che nel passato era coltivata solo dai filosofi o perseguita dagli spiriti religiosi. Gli aristocratici sentono come simili solo gli appartenenti alla loro casta, ma ora, se la somiglianza è universale, ha senso mettersi al posto degli altri e soffrire delle loro sofferenze o gioire delle loro gioie. “In più bisogna aggiungere che quest’idea non sorge sollecitata da riflessioni teoretiche sulla natura umana o sulla razionalità e men che meno da istanze religiose. Essa matura sulla base della convergenza dei fini della vita associata, delle problematiche inerenti all’organizzazione dell’attività cooperativa, delle osservazioni relative all’uniformità dei bisogni e degli interessi e dell’ingiustificata esclusione – di individui e gruppi – dall’accesso a beni fondamentali per la realizzazione della vita umana, quali quelli della libertà e della cultura”. In quale modo l’idea di similitudine dà realizzazione ai contenuti della fraternità? “Il diritto prende in considerazione le interazioni in cui sia in gioco, in qualche modo, l’interesse a cooperare, un interesse che dev’essere presupposto per dare un senso alle relazioni sociali. Nella cooperazione sociale la coordinazione delle azioni è volta al beneficio comune ed è governata dall’idea della reciprocità e della mutualità. “Ecco dove l’idea di similitudine trova applicazione, mettendo in pratica alcuni contenuti della fraternità: per cooperare è necessario riconoscere che il partner è “uno come noi”, cioè simile in ogni senso rilevante (dall’aspetto biologico a quello etico), e che la sua pretesa di benessere è legittima quanto la nostra. La similitudine, però, poiché traduce la fraternità, non è l’uguaglianza pura e semplice, dunque non esclude la particolarità. Bisogna rispettare tutti gli uomini, perché sono simili a quelli con cui ho particolari legami (e, innanzi tutto, me stesso).riconoscimento della similitudine è, dunque, un presupposto indispensabile del cooperare. Nell’atto del cooperare il simile è riconosciuto come eguale per la comune umanità e, al tempo stesso, come diverso per la sua identità”. La similitudine, questo è un aspetto della sua tesi, introduce correttamente nell’ambito della filosofia politica, e rispettando la logica di questa, l’antica “regola aurea”… “Sì: “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. Con l’avvertenza che non si tratta di proiettare nell’altro le proprie preferenze ma di trattarlo nell’orizzonte della comune umanità. Questa reciprocità non è da intendersi nell’ottica dello scambio fra beni equivalenti, del do ut des, perché essa è la condizione della possibilità stessa del contrattare e dell’accordarsi intorno a determinati oggetti. Non si identifica con l’imparzialità, perché non elimina l’interesse personale in quanto nessuno sosterrebbe un ordine sociale senza aspettarsi da ciò qualche guadagno. È una reciprocità nel riconoscimento di princìpi che possono essere accettati da tutti e nella comunicazione di prospettive diverse alla luce dei valori fondamentali dell’umano”. Non le sembra insolito introdurre la nozione di “amore” nell’ambito della filosofia politica? “Per niente. Aristotele – fra i molti – l’ha fatto. Il controllo dell’amore di sé, cioè la verifica della sua rettitudine, è dato dal fatto che esso non si Prof. Francesco Viola opponga all’amore per l’altro. Se in sé l’uomo ama l’umano, allora anche l’amore del prossimo è una cosa naturale. Non posso amare l’altro per quello che è se non sulla base dell’amare sé stessi per quello che si è nell’orizzonte della similitudine. L’amico, diceva Aristotele, è “un altro me stesso”. La similitudine permette la connessione fra la stima di sé e la sollecitudine per l’altro. Non posso rettamente stimare me stesso senza stimare l’altro come me stesso. “E qui abbiamo l’idea della reciprocità propria della regola aurea: ciascuno ama l’altro – continua Aristotele – per quello che egli è per se stesso. Amare l’altro per quello che l’altro è corrisponde all’amare se stessi per quello che si è, che è l’amore di sé proprio della regola aurea”. Ma questa costruzione non potrebbe avere come scopo quello di permettere il mutuo vantaggio fra amici, anche a danno di altri? “Per la regola aurea “reciprocità” non significa “mutuo vantaggio”, anche se a lungo termine. Essa non dice: “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te a condizione che gli altri facciano lo stesso”. In questo senso prescrive l’amore di benevolenza e prefigura relazioni sociali fra “datori di doni”. Sul piano della morale sociale e politica la regola aurea introduce il principio della solidarietà e del mutuo aiuto. Poiché c’è una comunanza di tutti a proposito dei beni umani fondamentali, promuoverli per gli altri è la stessa cosa che promuoverli per sé. I singoli individui diventano parti di un insieme che contribuiscono ad alimentare a da cui traggono le loro risorse. La loro stessa realizzazione è parte costituente di questa comunità. Non si tratta ancora di una comunità politica, ma di quella comunità morale di tutti gli esseri umani che è immanente in ogni comunità concreta, quella per cui ogni persona ha diritto ad essere trattata come “uno dei nostri””.