La Francia alla conquista delle aziende italiane

Prima Bulgari, adesso Parmalat: le multinazionali francesi sono a caccia dei principali marchi italiani. Cosa sta accadendo al nostro mercato? Intervista all’economista Alberto Ferrucci  
parmalat

Prima c’è stata l’acquisizione di Bulgari da parte del gruppo francese Lvmh, adesso la famiglia Besnier, che già controlla aziende italiane come Galbani e Invernizzi, sta tentando la scalata alla Parmalat. Cosa succede nel mondo imprenditoriale italiano? Lo chiediamo all’economista Alberto Ferrucci.

 

Le imprese italiane fanno troppo gola agli investitori stranieri o non riusciamo a tutelarle?

«Una azienda appartiene non solo a chi ne detiene il controllo azionario, ma anche a quanti hanno creduto in essa rischiando il loro denaro, di solito una maggioranza che conta poco perché frazionata e disorganizzata. È anche delle banche che prestano le risorse per farla funzionare e dei lavoratori che vi operano: se andassero via tutti assieme la farebbero scomparire. Un’azienda è anche di coloro che non vi lavorano più, ma che hanno utilizzato il loro ingegno per farla prosperare, magari inventandone i prodotti, mai retribuiti a sufficienza per il loro impegno; dei fornitori e dei clienti, quelli che con la loro affezione al marchio aziendale ne costituiscono la principale ricchezza; ed è infine anche del territorio in cui opera, che mette a disposizione le infrastrutture e il lavoro e ne sopporta l’impatto ambientale.

L’attuale sistema economico di mercato sembra dimenticare tutto questo per lasciar decidere sui destini della società unicamente la maggioranza di controllo, che a volte finisce nelle mani di finanzieri, non importa di che nazionalità, che gestiscono i capitali di chi cerca una remunerazione superiore a quella tradizionale. Finanzieri che hanno come unico scopo quello di accrescere il valore delle azioni per poi rivenderle, senza curarsi molto del futuro dell’azienda.

Per riuscirci trascurano la storia e la tradizione aziendale tagliando crudelmente ogni attività che nell’immediato non offra profitto, e per aumentare il valore delle azioni offrono dividendi che sarebbe più saggio utilizzare per investimenti e posti di lavoro: trasformano quello che era un bene sociale in un trastullo di spregiudicati, attenti solo al guadagno.

Non conta di che nazionalità sia chi si comporta così: il passato più o meno recente ci fornisce esempio di eleganti e sofisticati imprenditori e finanzieri italiani ottimi parlatori, che stanno spolpando un po’ alla volta quelle che erano grandi aziende pubbliche, nate con i risparmi e le imposte dei cittadini. Non è la nazionalità di chi acquisisce la maggioranza di controllo che conta, ma la sua propensione ad un investimento industriale o alla speculazione».

 

Per contrastare la scalata alla Parmalat, il ministro Tremonti sta studiando un decreto "anti-stranieri" sul modello francese. È un provvedimento giusto o un tentativo protezionistico anacronistico?

«I padri francesi, italiani e belgi dell’Europa avevano pensato ad un mercato comune europeo in cui simili discriminazioni non avrebbero avuto senso, ma al contrario avrebbe avuto importanza una maggiore tutela del valore sociale dell’azienda, che dovrebbe essere lo Stato con le sue istituzioni a offrire; ma si è lontani da queste preoccupazioni. Anzi, proprio il ministro Tremonti vuole invece agire in senso opposto, attribuendo la colpa del mancato sviluppo economico italiano all’articolo 41 della Costituzione, invece che alle tasse sul lavoro, alla poca formazione, ricerca e tutela dei giovani. L’articolo che si propone di modificare dice testualmente: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”».


Tornando al modello "protezionistico" francese, ci sono i casi di Ferrovie dello Stato, che lamenta l’ostruzionismo del mercato d’oltralpe, e di Autostrade per l’Italia, che si è vista annullare la gara per il tele pedaggio in Francia che si era aggiudicata. Come possono le aziende italiane continuare ad essere competitive e aggirare questi divieti?

«Certamente la Francia ha una tradizione maggiore di vicinanza dello Stato alla sua industria che non l’Italia: ho avuto esperienza, in passato, di aziende francesi sempre favorite perché i loro ambasciatori sapevano arrivare prima dei loro stessi imprenditori, allettando i possibili clienti magari con forniture o favori che solo i governi possono fornire. Quindi può essere che il ricambiare con un comportamento protezionistico come il loro possa servire come arma negoziale per una maggiore apertura reciproca.

Devo riconoscere però, per esperienza diretta, che negli ultimi anni vi è una maggiore attenzione degli addetti commerciali delle nostre ambasciate ad agevolare per quanto possibile gli imprenditori che vogliono esportare o aprire iniziative all’estero. Si tratta tuttavia, a mio parere, più un segno della buona volontà dei singoli funzionari che di una nuova politica del nostro governo, che in questi anni per ridurre le spese sta accorpando nelle ambasciate le attività estere dell’Istituto del Commercio estero».

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