La frammentazione politica in Tunisia

Le elezioni politiche hanno portato alla vittoria del partito islamico Ennahda, mentre quelle presidenziali hanno fatto emergere l’outsider tradizionalista Kais Saied, che ha manifestato l’intenzione di reintrodurre la pena di morte, di escludere dalla vita sociale gli omosessuali e ha mostrato perplessità manifestate sulla parità di genere in materia di successione ereditaria.

I risultati (provvisori) delle elezioni parlamentari di ottobre in Tunisia disegnano un quadro politico molto frammentato. È crollata a 4 seggi la formazione politica del defunto presidente Essebsi, Nidaa Tounes, che nella precedente legislatura era il partito di maggioranza relativa con 86 parlamentari. Qalb Tounes, il partito laico dell’imprenditore e candidato alla presidenza della repubblica Nabil Karoui, non è andato oltre i 38 seggi. Pertanto è risultato vincitore il partito islamico Ennahda che ha però ottenuto solo 52 seggi (17 in meno rispetto alle elezioni 2014). Per governare occorre poter contare su almeno 109 rappresentanti, un numero ben oltre la portata di qualsiasi singola formazione politica attuale. Per tentare di raggranellare una maggioranza ci vuole l’alleanza eterogenea di almeno quattro dei partiti maggiori e altri minori.

Il problema sorge logicamente dal sistema elettorale adottato nel 2014 dopo la rivoluzione dei gelsomini (2011): si tratta di un proporzionale puro, con liste bloccate e nessuna soglia di sbarramento. Con queste regole, le liste presentate sono state 1592 (di cui 642 indipendenti), con 15 mila candidati a contendersi i 217 seggi in ballo.

A distanza di una settimana, si sono svolte anche le elezioni presidenziali, a causa della morte, il 25 luglio scorso, del 92 enne presidente in carica Beji Caid Essebsi. Con 26 candidati alla presidenza e un’affluenza di poco superiore al 50% degli aventi diritto, è stato eletto al ballottaggio, con il 75% delle preferenze, l’outsider Kais Saied, giurista ed ex docente di diritto costituzionale, che ha battuto il rivale laico Nabil Karoui, leader di Qalb Tounes.

Il 61 enne neo-eletto ha condotto una campagna elettorale molto sobria, senza finanziamenti pubblici e senza l’appoggio di nessun partito, con un programma centrato sulla lotta alla corruzione e su una riforma in chiave federalista e di democrazia diretta del sistema politico. Intende adottare un atteggiamento tradizionalista in politica interna e nazionalista nei rapporti internazionali. Alcune opinioni di Saied hanno destato preoccupazione in ambienti laico-progressisti e soprattutto all’estero, in particolare l’intenzione di reintrodurre la pena di morte, di escludere dalla vita sociale gli omosessuali e le perplessità manifestate sulla parità di genere in materia di successione ereditaria. Pur non appartenendo ad alcun partito, il nuovo presidente ha ottenuto il sostegno di Ennahda e di altre formazioni minori moderate.

Secondo quanto dichiarato da Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda, il “movimento della rinascita” (questo il significato del nome) ha compiuto, ormai da due anni, una sorta di svolta copernicana nei suoi orientamenti, uscendo di fatto dall’orbita dei Fratelli musulmani e schierandosi per la separazione fra religione e Stato. «È arrivato il momento di fondare una democrazia musulmana moderna che tenga conto delle libertà individuali», aveva dichiarato Ghannouchi. Naturalmente oppositori e detrattori non gli credono e accusano Ennahda di dipendere dall’Akp turco di Erdogan. Ma la gente, soprattutto nel sud del Paese, gli ha dato credito.

Comunque le sfide che il popolo del Paese maghrebino chiede al nuovo governo di affrontare una buona volta non sono da poco. I governi che si sono succeduti fino ad ora hanno rivelato un’incapacità cronica di affrontare la corruzione, la recessione industriale, l’elevato debito pubblico e l’alto tasso di inflazione, oltre alla forte disoccupazione (15,6% in media, che sale al 20-30% fra i giovani), cause dirette e indirette della fuga di molti giovani verso la Francia o con i barchini fantasma diretti a Lampedusa; ma anche dell’arruolamento volontario in gruppi jihadisti: si calcolano in oltre 5-8 mila i giovani tunisini partiti volontari come foreign fighter sui fronti siriano, libico e iracheno negli ultimi anni. Fra quelli che sono tornati dopo la sconfitta del Daesh in Siria e Iraq, un migliaio sono attualmente in carcere in Tunisia. Ad essi si aggiungono altri 1.500 detenuti accusati di jihadismo in patria e numerosi altri, sfuggiti alla cattura, che si nascondono nell’area montuosa a ridosso del confine algerino.

Eppure, nonostante tutto ciò, la democrazia in qualche modo continua a reggere in Tunisia. Meriterebbe tutto l’aiuto possibile da parte dell’Ue e dell’Italia in particolare, data l’importanza e il valore di un rapporto storico fra paesi vicini e legati da una grande affinità mediterranea.

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