La forza del mite Bachelet

Più che mai attuale la figura di Vittorio, ucciso dalle Br trent'anni fa. A colloquio col fratello Paolo.
Vittorio Bachelet

Quel 12 febbraio Paolo Bachelet, padre gesuita, classe 1922, unico rimasto di nove figli, era nel seminario regionale di Anagni (Frosinone) quando lo raggiunse la notizia dell’assassinio di Vittorio da parte delle Brigate rosse al termine di una lezione all’università di Roma.

 

Temeva un evento del genere?

«Non fu una sorpresa, perché sapevo che era una situazione a rischio, la sua. C’eravamo visti qualche giorno prima, perché era andato in un paese della Ciociaria per il funerale di un magistrato colpito dalle Brigate rosse. Si era fermato da me, avevamo fatto una bella passeggiata, ma non mi aveva accennato nulla di particolare».

 

Proprio nessun segnale?

«Dopo ho ricollegato il fatto che lui spesso chiedeva le nostre preghiere per il difficile incarico che ricopriva. Negli ultimi tempi aveva intensificato la richiesta. Solo dopo ho saputo che era stato avvisato di essere nel mirino delle Brigate rosse. Gli avevano offerto la scorta, ma lui l’aveva rifiutata».

 

Come reagì alla notizia?

«Venni a Roma, mi recai all’università, ma l’avevano già trasportato all’obitorio. Andai a casa sua, trovai la moglie e la figlia. Giovanni era negli Stati Uniti. Un amico gli dette la notizia e prese subito un aereo».

 

Presidente dell’Aziona cattolica per tre mandati, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Cosa guidava il suo impegno?

«Nel 1976 gli chiesero di candidarsi al consiglio comunale di Roma, in cui fu eletto. Lui dal 1973 non era più impegnato nell’Azione cattolica, era perciò disponibile per portare un contributo anche alla vita politica. Lo muoveva lo spirito di servizio che lo spinse anche ad accettare, dopo pochi mesi, la nomina a consigliere e poi a vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, carica molto rischiosa in quegli anni di piombo».

 

Le partecipava i problemi?

«Non faceva pesare sugli altri le sue preoccupazioni. Era sempre molto sereno. Io non l’ho mai visto arrabbiato: probabilmente per temperamento, ma anche per scelta. Anche quando si doveva parlare delle persone, era molto obiettivo, mai polemico».

 

Cosa le è mancato di lui in questi 30 anni?

«Certamente il suo affetto e la sua serenità. Ma pure l’obbiettività con cui sapeva vedere problemi e avvenimenti. Era un punto di riferimento».

 

Cosa ha significato la sua morte?

«È stata una rivelazione della sua grandezza. Alla morte ci sono state tantissime dimostrazioni di affetto e di stima, anche di persone di convinzioni diverse od opposte alle sue. Nell’ambito degli studi, non avrei mai pensato che avesse scritto tanto. I suoi testi giuridici sono ritenuti di notevole valore per l’innovazione di idee e d’impostazione».

 

I funerali rivelarono la sua fisionomia interiore?

«Ai funerali ci fu un clima di serenità, di fede e di perdono, che commosse tutti, incominciando dal presidente della Repubblica Pertini. Commentò: “Non sono credente, ma non sono indifferente”. Altri dissero: “Se questo è il cristianesimo, sono cristiano pure io” e frasi simili pronunciate da persone che si sono riavvicinate alla fede».

 

E i terroristi?

«Alcuni di loro hanno poi affermato: “Noi siamo stati sconfitti quando siamo stati perdonati”. E difatti da quella data iniziò il declino delle Br, perché qualcuno incominciò a parlare, furono scoperti i covi e prese avvio un cammino di riflessione e di conversione in molti terroristi detenuti. In questo percorso mio fratello Adolfo, pure gesuita, ha potuto accompagnarli e raccogliere frutti meravigliosi della grazia che aveva trasformato le loro vite».

 

Nelle celebrazioni del 30esimo si spenderanno tante parole su suo fratello. Teme la retorica e le ritualità di circostanza?

«Di Vittorio oggi i trentenni forse conoscono, sì e no, il nome. I ventenni probabilmente non ne hanno sentito parlare. Molti degli amici e dei collaboratori sono scomparsi e quindi una celebrazione che ripresenti la personalità di Vittorio può essere di stimolo per tutti».

 

Quali tratti da non dimenticare?

«La sua caratteristica di operatore di pace: aveva la capacità di ascoltare a lungo, con attenzione e con rispetto, di dare modo a tutti di esprimere la loro opinione e sapeva far emergere da ciascuno quegli elementi di verità e di bene che poi sintetizzava in conclusioni accolte da tutti, come mi hanno detto che avveniva pure al Consiglio superiore della magistratura.

«Un altro aspetto è la sua figura cristiana che incarna le beatitudini con fortezza e serenità. Il suo ricordo può essere un esempio dello spirito di servizio e di collaborazione serena e disinteressata per il bene comune di cui in questo momento c’è molto bisogno».

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