La forza del diritto davanti alla guerra
Dal prossimo primo agosto entra in vigore la Convenzione di messa al bando delle bombe a grappolo. Assenze prevedibili e il lavoro ancora da compiere
Un esempio aiuta a capire. Solo dopo otto anni dai bombardamenti della Nato nel 1999 l’ambasciatore serbo presso la stessa organizzazione ha ricevuto le mappe dei 219 siti su cui sono state lanciate le cluster bomb. Una carta topografica esatta è infatti necessaria per iniziare la bonifica del territorio di quel Paese dove secondo la Cmc (Cluster Munition Coalition) ci sarebbero ancora 2500 ordigni inesplosi in aree densamente popolate.
Si stima che nel mondo ci siano 100 milioni di ordigni inesplosi ma non riconoscibili perché di colore sgargiante e accattivante, simili a delle lattine di bevanda commerciale. Non sono mine depositate per far saltare in aria chi ci passa sopra secondo dei confini preordinati. Le cluster bomb si aprono in mezzo al cielo spandendo a largo raggio centinaia di piccole bombe che dovrebbero esplodere a contatto con la terra, gli edifici, le persone. Una parte – su cui esiste un dissenso tra gli esperti, tra chi dice il 5 e chi arriva al 40 per cento – rimane inerte ma pronta a deflagrare non appena manipolata. È la prima cosa che un bambino ha l’istinto di andare a prendere. Magari il conflitto finisce, ma le bombe rimangono sul terreno.
Anche in quella che è stata chiamata la “guerra dei sassi” per la povertà dei contendenti, cioè il conflitto tra Etiopia ed Eritrea del 2000, si è fatto uso di bombe a grappolo, lanciate contro dei campi profughi. La fabbricazione degli ordigni, in questo caso, era di marca britannica ma la filiera e le responsabilità non sono state ancora accertate. Così nella erroneamente ritenuta “guerra lampo” della primavera del 2003 in Iraq la coalizione dei volenterosi alleati degli Usa ha lanciato circa 13mila bombe a grappolo per un totale che oscilla tra 1,8 e 2 milioni di piccoli ordigni. Questi i dati forniti dalla Cmc, che raccoglie oltre 300 realtà associative eterogenee, rappresentata in Italia dalla campagna contro le mine. L’essere “contro” esprime evidentemente la scelta “per” qualcosa di diverso, e in questo caso l’obiettivo è molto semplice e teoricamente condivisibile da tutti: bloccare la produzione e il commercio di tali strumenti di morte, offrire assistenza alle vittime e fare accollare il costo della bonifica dei territori a chi le ha usate. Sono gli obiettivi fatti propri dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la messa al bando delle bombe a grappolo firmata nel 2008, tra i primi artefici la diplomazia della Santa Sede. Per entrare in vigore doveva ricevere la ratifica di almeno trenta nazioni, traguardo raggiunto con la firma di Burkina Faso e Moldova il 16 febbraio.
Un trattato impegna ovviamente solo gli Stati firmatari, ma pone in evidenza un’esigenza umanitaria che non può non incidere nelle coscienze dei singoli e nella maturazione collettiva dei popoli che scelgono i governi nazionali. È uno dei paradossi del diritto internazionale che, anche quando debole e disatteso, rimane a salvaguardia delle ragioni della convivenza e mina alle fondamenta la pretesa legittimità del più forte.
D’altra parte non può meravigliare il fatto che Usa, Israele, Cina e Russia non abbiano firmato il testo della Convenzione. Nel caso delle bombe a grappolo esiste una storica responsabilità estesa e condivisa se prestiamo attenzione al fatto che, come riportano le fonti della Cmc, tra i Paesi produttori, oltre all’ex blocco sovietico e alla Nato, troviamo Argentina, Brasile, Cile, Corea del Nord, Corea del Sud, Egitto, India, Iran, Iraq, Israele, Pakistan, Singapore e Sudafrica. Tutti coinvolti nella fabbricazione di armamenti evidentemente destinati ad un uso indiscriminato.
Il realismo politico di Obama, chiamato a confrontarsi con un sistema militare e industriale che ha riempito gli arsenali di 800 milioni di cluster bomb e ha impedito una firma seppur tardiva del trattato, ha condotto ad avviare un percorso molto più lento che prevede il divieto all’esportazione di bombe fabbricate negli Usa fino ad auspicarne la messa al bando nel lontano 2018, ben oltre i mandati possibili del presidente afro americano.
D’altra parte anche la Convenzione è frutto di un compromesso, dato che non obbliga a interrompere i progetti di collaborazione nel campo della difesa con chi non aderisce al trattato e, aspetto più grave, non esclude l’uso di ordigni più evoluti capaci di maggiore precisione e di disattivarsi se inesplosi. Un modo per superare formalmente la discriminante umanitaria e il pericolo a lungo termine, ma anche una conferma che l’imposizione di un limite induce a trovare soluzioni di minor danno.
Rimane il dubbio sull’Italia, tra le prime nazioni a firmare la convenzione, ma ancora lenta a ratificarla. Non bisogna dimenticare che il nostro Paese non è stato estraneo all’intero sistema, e per alcuni, come la Campagna contro le mine, ci sono ancora aree di ambiguità in alcuni settori, oltre agli oneri dell’opera di distruzione degli ordigni stoccati, da completare entro otto anni dalla ratifica.
L’adesione alla Convenzione Onu ha costituito finora uno dei momenti significativi di unità tra le parti politiche che attende di essere portato a termine in maniera decisa.