La fortezza di Artemisia
Chi vuol sapere che donna sia Artemisia, cosa pensi e viva, dovrebbe – entrando nella mostra magnifica – sorpassare le opere esposte, infilarsi in un piccolo ambiente e fermarsi davanti al Ritratto di dama, posto accanto ad altri ritratti come il Cavalier de Ville e il Gonfaloniere. Ma la donna che si erge impettita e ci guarda è formidabile. Nessuna arroganza, solo la fierezza di chi conosce il mondo e la vita, e ha avuto il coraggio di non arrendersi di fronte alle sventure.
È lei, Artemisia Gentileschi, figlia del gran pittore Orazio, violentata diciassettenne dal collega Agostino Tassi. Subito processata, torturata, ma decisa nel dire la verità e rifiutare un matrimonio riparatore. Cosa quasi impossibile nella Roma papalina del primo ’600. Come impossibile per una ragazza, pur dotata, studiare, dipingere, frequentare gente colta: creare, insomma, e sentirsi viva. Certo, il trauma dev’essere stato forte. Se ne trova traccia nelle scene violente che dipingerà sino alla morte, nel 1653.
Decapitazioni di Oloferne, morti di Lucrezia e Cleopatra, Susanna insidiata dai vecchioni: temi comuni certo, da Caravaggio a Guercino, da Reni a Ribera a Battistello e agli artisti che pullulavano nella fervida Roma del tempo, venuti ad imparare l’arte “moderna”. Ma Artemisia ci mette di suo una vena tragica, alta ed eroica. Senza finzioni o inibizioni. Guardiamo due versioni della Susanna. Nella prima, in pieno giorno, la ragazza florida – Artemisia non idealizza mai nessuno – è spiata dai vecchi maliziosi e si ritrae con un gesto inorridito; nella seconda è più decisa, li respinge mentre la minacciano nell’ombra della sera. Il colore è brunito, non più luminoso. Oppure, il soggetto più citato, ossia Giuditta e Oloferne.
Certo, la pittrice ha conosciuto Caravaggio. Il quale non ha allievi, ma ha tutta l’Europa che corre a vederlo. Artemisia conoscerà le sue opere come quelle di tanti colleghi un po’ ovunque, perché lei è una che si muove, da Firenze alla corte del Granduca, a Londra, a Napoli. Nella prima versione della Giuditta, è lei, bella e bruna ragazza romana, in carne, che ci mostra la testa mozzata del guerriero, decisa. Nella tela a Pitti (Firenze) ritrae la donna con la serva, il cesto con la testa in ombra, lo spadone sulle spalle, mentre guarda nel buio della notte. È spavalda, eroica. Nella versione napoletana si concentra sull’uccisione. Nessun raccapriccio di sensibilità femminile: Giuditta affonda la lama nel collo del guerriero, sprizza il sangue da ogni parte: è un film dell’orrore, spalancato davanti a noi con tinte appassionate. Il ’600 non è solo glorie ed estasi.
Ma Artemisia, l’unica donna ad ottenere l’ingresso nella prestigiosa Accademia delle Arti e del Disegno fiorentina, è pure altro. Sa suonare e cantare. Si ritrae mentre suona il liuto, ci guarda attendendo il nostro ascolto. Sempre diritto, sempre puntata sui nostri occhi. Lei non nasconde nulla: né il marito, la figlia, l’amante, i fratelli che non la rispettano, i debiti e il successo. Le piace la scienza, ed è certo sotto l’influsso degli studi astronomici di Galileo, che frequenta a Firenze, che compone una tela originalissima, l’Aurora. Altro che le belle donne classiche di Guido Reni. Qui c’è un donnone in chiaroscuro che prepotentemente allontana la notte e fa sorgere le prime luci.
Di luce Artemisia ha bisogno, sembra che la cerchi di continuo. Ha preso da tanti colleghi, ma è rimasta sé stessa. La sua femminilità esce allo scoperto come tenerezza. Sono gli ultimi anni. Adorazioni dei Magi dove è lei Maria che mostra il bambino, Annunciazioni intime, Nascite del Battista casalinghe. Una religione non pietistica. Ma vera, fatta di squisitezze di tocco, di velluto morbido nella luce. Di vita. Artemisia è anche questo, e non solo. Tutta da scoprire.
Artemisia Gentileschi e il suo tempo. Roma, Palazzo Braschi, fino al 7/5 (cat. Skira/Arthemisia Group).