La follia della guerra e il realismo della pace
Il 5 novembre è previsto maltempo sulla città di Roma, che accoglierà l’ennesima manifestazione per le sue strade del centro fino a Piazza San Giovanni, un largo spazio irregolare in verità, che rappresenta un test per misurare la capacità di mobilitazione di chi ha indetto il corteo.
Per avere un’idea della partecipazione popolare di massa di anni passati, bisogna rivedere qualche filmato dell’oceanica folla del funerale di Berlinguer nel 1984, il Giubileo dei giovani dello stesso anno o la mastodontica manifestazione del 2003 per scongiurare la guerra in Iraq che fu decisa comunque da George W. Bush e Tony Blair.
Nel Novecento contava ancora chi prendeva la testa del corteo per poi fare l’intervento finale, mentre oggi è sempre più determinante la rappresentazione dei media che decidono dove concentrare le telecamere e il minutaggio dedicato nei notiziari che passano velocemente da un argomento all’altro.
È verosimile, perciò, che anche la manifestazione per la pace indetta dalla coalizione della società civile di Europe for peace, che raduna un notevole numero di associazioni e reti, sarà trattata con attenzione dedicata prevalentemente alle presenze e assenze dei politici.
L’obiettivo dichiarato dell’iniziativa è, in effetti, “politico” perché mira a chiedere all’Italia, quindi a governo e parlamento, di aderire al trattato internazionale di messa al bando delle armi nucleari e di essere parte attiva nell’avviare un negoziato di pace che veda l’Onu come protagonista.
È facile intuire che nessun esponente dei partiti dell’esecutivo sarà presente tra i manifestanti, ma l’opposizione rappresentata nelle Camere andrà in ordine sparso.
Calenda ha convocato a Milano, nello stesso giorno, una manifestazione di solidarietà con l’Ucraina aggredita per segnare il distacco verso ogni ambiguità che alberga, a suo parere, tra chi sarà a Roma, anche se gli organizzatori hanno ribadito la condanna di Putin e affermato di rispettare la resistenza ucraina, evitando riferimenti alla questione dell’invio di armi italiane all’esercito di Kiev effettuate durante il governo Draghi e ribadite dalla neo presidente del consiglio Meloni.
È anche certo che nella piazza capitolina, nonostante l’efficiente organizzazione assicurata dalla Cgil, si avranno frange di minoranze organizzate nel contestare duramente Nato e Usa. Spezzoni del corteo che attireranno l’attenzione della stampa in cerca dei filoputiniani.
A prescindere da ogni polemica, è evidente che quanto accaduto dal 24 febbraio in poi non sembra lasciare spazio a soluzioni diverse dal conflitto senza fine che non sia la vittoria di una delle due parti. Costi quel che costi.
La mancanza di una mediazione autorevole e credibile da parte della comunità internazionale ha indotto finora ad accettare implicitamente un’escalation militare capace di arrivare esplicitamente all’uso dell’arma nucleare. Un abominio che viene esorcizzato con il rimando al concetto di “nucleare tattico” nell’illusione di poter gestire un tale strumento di devastazione senza arrivare alle conseguenze estreme.
Tale scenario rende ragione della definizione della guerra non come giusta o giustificata ma come vera e propria follia (“alienum est a ratione” per usare la definizione della Pacem in terris) che ha bisogno di un forte intervento del principio di realtà (“siamo sull’orlo dell’abisso!”) per non produrre tutti i suoi danni irreversibili.
Si comprende, perciò, il senso della lettera aperta rivolta a chi manifesta per la pace dal presidente della Cei, Matteo Zuppi, per dire: «Non sei un ingenuo. Non è realista chi scrolla le spalle e dice che tanto è tutto inutile».
L’incoraggiamento del cardinal Zuppi, pubblicato su Avvenire, si scontra con la convinzione, sempre più pervasiva, che sia sorpassata l’idea di poter cambiare il corso della storia con la forza dell’opinione pubblica che non resta alla finestra ma espone il proprio corpo in piazza. Come se tutto fosse ormai irrimediabilmente in mano a poteri economici e militari così grandi da non poter smuovere in alcun modo.
È con questo approccio di resa al “Fato” del conflitto permanente che trovano alimento le numerose analisi geopolitiche che giustificano la politica del riarmo del nostro Paese all’interno della strategia definita dal vertice Nato di Madrid di fine giugno 2022. Considerazioni che portano facilmente a bollare come disfattista o “utile idiota del nemico” chi cerca di dare spazio ad un movimento per la pace.
Eppure le proposte concrete non mancano come dimostra l’appello di un discreto numero di ex diplomatici italiani a favore di una convocazione di una Conferenza sulla Sicurezza in Europa come strumento del ritorno allo spirito di Helsinki, dopo aver concordato la neutralità dell’Ucraina sotto tutela dell’Onu.
Su La Stampa del primo settembre Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta, ha parlato di Gorbaciov ricordando che egli «disprezzava la guerra. Disprezzava la real politik. Era convinto che il tempo in cui l’ordine mondiale poteva venire dettato dalla forza fosse finito. Mi aveva raccontato di essersi rifiutato di schiacciare il bottone dell’attacco atomico perfino durante le esercitazioni! Aveva visto i filmati dei test nucleari nei quali il fuoco divorava tutto».
E ora? «Tra la pace e l’esplosione nucleare non si interpone più un uomo di nome Gorby» scrive Muratov.
Per chi non si vergogna di sostenere le ragioni di una politica di pace si tratta di affrontare con il criterio del realismo le sfide che riguardano il nostro Paese e che richiederanno, prima o poi, delle scelte precise del nostro governo che non devono trovare impreparata la società civile responsabile.
È imminente, ad esempio, il programma di aggiornamento delle testate atomiche statunitensi presenti ad Aviano e Ghedi in modo da poter essere trasportate dai caccia bombardieri F35. Siamo, in questo caso, davanti ad una limitazione di sovranità nazionale prevista dal secondo comma dell’articolo 11 della Costituzione oppure si tratta della violazione del principio del ripudio della guerra dichiarato in questa norma fondamentale della Carta?
Il luogo della massima contesa, secondo un recente numero di Limes, è il mar Mediterraneo che eravamo abituati a chiamare “nostro” ma che tale non è ormai da tempo con il transito di 10 mila navi al giorno di diversa nazionalità.
“Siamo pronti a combattere?” Si chiede concretamente l’analista Germano Dottori, per anni docente di strategia alla Luiss di Confindustria, secondo il quale sono “presumibili” scenari d’impiego della forza armata che richiede “una dotazione adeguata” in vista del fatto che i nostri alleati spesso hanno obiettivi diversi dai nostri. Si pensi alle pretese neo ottomane della Turchia di Erdogan che guida il secondo esercito della Nato.
All’Italia viene rimproverata da molti analisti di aver lasciato campo libero alla Turchia nel controllo di Tripoli per aver rifiutato di svolgere tale compito che richiedeva di “mettere gli scarponi sulla sabbia”, cioè un intervento armato necessario dopo il caos seguente alla disastrosa guerra in Libia del 2011.
È un fronte incandescente quello balcanico con la secessione annunciata dei serbi di Bosnia Erzegovina e le tensioni con il Kosovo dove l’Italia è presente con un contingente armato della Nato che è secondo, per consistenza, solo agli Usa.
La pace e la guerra non sono, perciò, concetti vaghi e lontani ma una concreta sfida che chiede di prendere decisioni in tempo rapido davanti al mutare degli eventi che non possono trovare impreparata e sorpresa l’opinione pubblica che resta centrale in una democrazia che resti tale.
E, invece, come afferma, con realismo, Lucio Caracciolo, «in caso di attacco nemico» la nostra «impreparazione psicologica prima che tecnica scatenerebbe panico nell’opinione pubblica e caos negli apparati».
Mettere a tema una vera politica di pace che non si riduca a considerare la nostra penisola solo come piattaforma logistica per la prossima guerra è espressione di un vero realismo che deve alimentare un serio confronto pubblico appena finita la manifestazione del 5 novembre, giocando in contropiede sui meccanismi che riducono tali momenti a sterili polemiche di cortile.
__