La Fiom rientra in Fiat

Il gruppo industriale dichiara di applicare la sentenza della Corte costituzionale, ma avverte di non poter più investire senza la certezza di una legge sulle rappresentanze sindacali. Il nodo e la sfida della democrazia sul lavoro
Fiat

Con il linguaggio stringato del comunicato stampa, che non deve dire una parola in più del necessario, la Fiat ha finalmente dato notizia di aver scritto al sindacato metalmeccanico della Cgil, la Fiom, riconoscendo l’applicazione della decisione della Corte costituzionale del 23 luglio scorso, in cui si dichiara l’incostituzionalità dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970) nella parte in cui non prevede la rappresentanza dei sindacati che non hanno siglato i contratti collettivi applicati in azienda.

Gli iscritti alla Fiom, quindi, potranno avere i loro rappresentanti sindacali pienamente riconosciuti all’interno delle aziende del gruppo industriale controllato dagli eredi dalla famiglia Agnelli e guidato da Sergio Marchionne. Difficilmente in uno stato di diritto si poteva immaginare una soluzione diversa dall’adesione alla decisione della Corte. Così è stato segnato un altro punto a favore del segretario generale Maurizio Landini che aveva sempre sostenuto l’illegittimità del licenziamento di tre operai Fiat dello stabilimento di Melfi in Basilicata.

La loro estromissione dall’azienda con l’accusa di sabotaggio è stata emblematica di una lotta senza tregua tra la Fiom e la Fiat. Marchionne, anche dall’estero, li ha sempre citati come esempio dell’impossibilità per l’azienda, in Italia, di governare pienamente all’interno dei luoghi di lavoro. Nel frattempo i tre hanno fatto il giro del Paese in cerca di solidarietà e uno di loro, Giovanni Barozzino, è stato eletto come senatore nelle liste di Sel. Gli altri due, secondo le ultime notizie, potranno rientrare in fabbrica ma non hanno mansioni da svolgere.

Nel frattempo Fiat sta completando la fusione con la Chrysler con il timore crescente di una fuga della direzione del Gruppo oltreoceano. Bisogna, infatti, tener presente che ogni nuovo “accordo tra produttori”, come quello annunciato il 2 settembre a Genova tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, non coinvolge la multinazionale italo-americana, fuoriuscita dall’associazione degli imprenditori, anche se ha dichiarato l’importanza strategica della partecipazione azionaria accresciuta dentro un gruppo di informazione importante come quello del Corriere della Sera.

Anche le ultime esternazioni di Marchionne sono state esplicite sll’impossibilità di investire nel Belpaese, trovando reazioni ufficiali moderate, come quella del ministro del Lavoro Giovannini: «Non sono d’accordo». Più netto l’intervento del ministro dello Sviluppo Zanonato che all’Unione industriali di Torino ha dichiarato: «Il sostanziale fermo dell'impianto di Mirafiori, la sua progressiva obsolescenza, creano incertezza e sono elemento di preoccupazione».

Entro fine settembre Zanonato ha convocato i vertici Fiat a proposito del piano di investimenti in Italia, anche perché il 30 del mese termina per lo storico stabilimento piemontese il periodo della cassa integrazione da rifinanziare. In questo senso è importante la lettura della seconda parte del comunicato Fiat, dove si afferma che «un intervento legislativo è ineludibile: la certezza del diritto in una materia così delicata come quella della rappresentanza sindacale e dell’esigibilità dei contratti è una condicio sine qua non per la continuità stessa dell’impegno industriale di Fiat in Italia».

È lo stesso auspicio avanzato dalla sentenza della Corte costituzionale. Tutto dipenderà se e come verrà definita la nuova legge. Dagli spazi di democraticità e di partecipazione effettiva che saranno riconosciuti ai lavoratori non come concessione, ma quale fattore di maggiore efficienza: con elezioni interne e indizione di referendum che non siano l’alternativa tra la vita e la morte.

Potrebbe essere il frutto positivo di questo lungo periodo di conflitto che ha messo in evidenza il nodo centrale dell’attuale sistema che esponenti del pensiero dell’economia civile come Stefano Zamagni e Luigino Bruni sottolineano in maniera efficace: per uscire dalla crisi occorre cambiare la matrice culturale prevalente basata sulla scissione tra economia e democrazia.

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