La fine del dibattito pubblico e il rischio per la democrazia
«”Asfaltare. Schiantare. Abbattere. Fare a pezzi”. Sono i verbi che si usano ormai quotidianamente per rappresentare presunte (spesso del tutto immaginarie ed effimere) vittorie dialettiche sul proprio avversario politico. Una narrazione tossica». Lo afferma con convinzione il neuro-psichiatra Giuseppe Auriemma in un suo post su Facebook.
Tema caro a Gianrico Carofiglio, che dalla narrazione è interpellato nei diversi mestieri attraverso cui riesce a passare – scrittore, magistrato, politico – e già nel 2015 aveva riflettuto con lucidità e rigore sul potere delle parole, e il dovere di usarle per dire la verità, nel suo “Con parole precise. Breviario di scrittura civile”.
Perché una scrittura e una comunicazione è civile se limpida, onesta e democratica, e come tale responsabilmente rispettosa delle parole, dei destinatari, delle idee.
Nel 2017 Mark Thomson, già direttore generale della BBC e oggi amministratore delegato del New York Times, nel clima infuocato delle elezioni americane, pubblicava un testo iconico “La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”.
La tesi del giornalista inglese è che sia in atto una profonda trasformazione del linguaggio pubblico, che sta scadendo nel cinismo e nella mancanza di concretezza. Il maldestro uso della retorica impedisce di spiegarsi, utilizza notizie false per avvalorare le proprie posizioni, aumenta come esito finale la sfiducia dei cittadini nella politica.
Thomson, come Carofiglio, fa una profonda disamina del linguaggio ed in particolare cerca di cogliere come gli espedienti retorici vengono utilizzati nel dibattito pubblico. Molti li possiamo riconoscere anche nelle parole dei nostri leader politici.
Innanzi tutto la Brevitas: con uno slogan si esprime un concetto molto più complesso. Già il grande teologo Romano Guardini, nei suoi scritti politici (1925) quasi un secolo fa, indicava lo slogan come assenza di vera politica.
Il secondo espediente è la Sineddoche, ovvero considerare una parte per il tutto. Per esempio quando la nostra esperienza personale diventa cifra universale dei fenomeni, oppure quando pochi casi di malasanità diventano la rappresentazione dell’intero sistema sanitario.
Il terzo espediente è la Prolessi: si prende un futuro immaginario e lo si presenta come già realizzato. Ovvero la tecnica di annunciare provvedimenti risolutivi propose che ancora devono iniziare l’iter parlamentare.
Infine la Massimizzazione, un espediente che serve molto anche al sistema dei media per spettacolarizzare ogni notizia rendendola eclatante.
Secondo Thomson il nuovo sistema ibrido dei media (social e tradizionali) avrebbe aumentato a dismisura le patologie del dibattito – inciviltà, disinformazione e polarizzazione – mettendo a serio rischio la stessa democrazia, che di dibattito si nutre.
Molti analisti negli ultimi anni hanno sollevato il tema delle “bolle”, delle “camere dell’eco” dove persone con le stesse idee si rifugiano per rassicurarsi vicendevolmente, magari aggregandosi contro nemici comuni. Ed internet con le reti sociali avrebbe amplificato questi fenomeni.
Tuttavia distinguere sintomi e cause non è operazione semplice. Ed è quanto hanno cercato di fare due studiosi italiani, Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri, con il loro saggio “Voci della democrazia. Il futuro del dibattito pubblico”, uscito con Il Mulino (2021). I due accademici si chiedono: Il dibattito pubblico sta per finire oppure si è trasformato e sta evolvendo verso nuove forme e nuove direzioni?
Ad un certo determinismo tecnologico (è colpa di internet!) gli studiosi italiani cercano di rispondere con un’analisi delle trasformazioni del sistema politico e del sistema dei media. Ci sono elementi inediti come la disintermediazione del dibattito pubblico che pongono nuove sfide a tutti gli attori.
La più importante – segnalata da Bentivegna e Boccia Artieri – appare quella di un etica del discorso che sappia superare il modello polarizzante come modello elettorale. Questo implica una nuova cittadinanza consapevole che sappia innalzare il livello di democrazia presente nel dibattito pubblico. Progetti come “Parole O_Stili” contro la violenza verbale ne sono un esempio virtuoso. Ma serviranno anche nuove regole sulle piattaforme di produzione, distribuzione e consumo di notizie, che toccano sul vivo i diritti politici. Perché è innegabile che la forma stessa di alcuni social (pensiamo a Facebook) sembra spingerci più facilmente verso la polarizzazione.
Emotività e razionalità coesistono insieme a verità e fake news. Minoranze litigiose e rumorose sui social media vengono amplificate dai media tradizionali e dai leader politici interessati. Ovvero la propagazione del dibattito incivile.
Rovesciando il problema potremmo chiederci: ci interessa un dibattito civile? Quale forma potrebbe assumere? Quale diversa strutturazione dovrebbe avere i social media – e i media in generale – per aiutatrici a dialogare?
Alla rivoluzione comunicativa dei social può seguire una nuova rivoluzione, se, come suggeriva Rosa Luxemburg “dare il nome giusto alle cose è un gesto rivoluzionario”.