La finanza malata di John Gabriel Borkman

Crisi finanziarie e fallimenti bancari, ascese e rovine di disinvolti aspiranti al potere economico.
BORKMAN-Mandracchia-Popolizio_fotoLePera

Ci sono tutti gli elementi dell’attualità. Nel dramma John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen, così impregnato di stilemi ottocenteschi (fu scritto dall’autore norvegese nel 1896 prendendo spunto da reali scandali finanziari), vi sono presagi di modernità che lo rendono conforme ai nostri tempi.
 
Il protagonista, abile e geniale, è un banchiere reduce da otto anni di prigione per bancarotta che ha messo nei guai i suoi clienti non per tornaconto personale, ma per inseguire il sogno di una finanza etica. Figlio di minatori aveva, infatti, l’ossessione di cavare dalla terra la materia prima al solo scopo di creare un futuro di progresso e benessere per l’umanità (Ibsen sembra ricordarci, ancora oggi, a cosa dovrebbe servire la finanza sana, non finalizzata alla spartizione del potere, bensì al bene della collettività). Abbandonato da tutti, al ritorno dalla prigione si è chiuso in una risentita solitudine al piano superiore della sua casa, autoescludendosi dal mondo per altri lunghi otto anni, in cerca di un impossibile riscatto.
 
Ma il dramma è nella relazione con gli altri personaggi e nelle situazioni che riaffiorano dal passato. C’è un intrigo sentimentale e famigliare; c’è la battaglia mortale di due sorelle che ne sono le vere protagoniste, nella lotta per il possesso di due oggetti maschili che le ha divise nel passato e ancora le divide: il vecchio Borkman e il figlio che la zia ha cresciuto e vorrebbe accanto a sé ora che sa di essere malata di un male incurabile, e al quale vorrebbe, anzi, dare il suo stesso nome.
 
Emergono così l’amore mai appagato di Ella, sorella gemella della moglie di Borkman, per il banchiere, e il doppio senso di maternità nei confronti del figlio Erhard,  oggetto dei progetti e delle passioni delle due donne. Per la madre naturale egli è colui che è destinato a riscattare il padre, per la sorella è la consolazione dei suoi ultimi mesi di vita. Ma Erhard fugge con una donna più grande di lui dopo essersi ribellato urlando: «Sono giovane, non voglio lavorare, voglio vivere». Ed anche in questo “voler vivere” c'è molto del presente. In questo deserto degli affetti, alla morte improvvisa di Borkman si ritroveranno infine le due sorelle, che nel cercasi delle loro mani, quasi a sostenersi l’un l’altra, sembrano riunirsi.
 
Si deve al regista Piero Maccarinelli l’aver riportato dopo molti anni di assenza questo testo fra i più vigorosi nell’evocare i miti e le disillusioni di un’epoca, ma anche uno dei più densi di motivi simbolici. Egli, però, ne ha fatto un allestimento alquanto tradizionale, che invece si sarebbe ben prestato, per i motivi espressi all’inizio, ad un più coraggioso affondo (ricordiamo l’edizione del tedesco Thomas Ostermeier che puntava sulle relazioni corporee e sulle azioni dei personaggi). Perché in quel gettarsi addosso parole che sono ad un certo punto solo recriminazioni, c’è il senso di una lotta, di un ring metaforico, che mette a nudo le anime. Le svuota estenuandole e le ricongiunge.
 
Non basta l’intensa prova di Massimo Popolizio, che conferisce al protagonista la caparbietà di un uomo che non ha perduto un’oncia della sua prepotenza, nulla del suo ottimismo, niente della sua spavalderia; né la bella resa interpretativa di Manuela Mandracchia e, un po’ meno, di Lucrezia Lante della Rovere, dai toni monocorde, a riscattare uno spettacolo di equilibrato nitore ma non graffiante. Se la regia è anche la capacità di creare gesti memorabili, qui, forse, sembrerebbe latitante.
 
Al Teatro Eliseo di Roma fino al 4 novembre, poi al Piccolo Teatro Grassi di Milano, dal 7 al 18 novembre, e in tournèe.  

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