La fiera dell’ovest
In barba alla crisi, come ogni primavera ho la scrivania ingolfata di dischi nuovi di zecca. Bene, siamo qui per questo. Se non fosse che stavolta il grosso è composto dalle opere prime dei nuovi rampolli di X Factor e di Amici: le batterie d’allevamento delle nuove ugolette nostrane, o per meglio dire, i certamen neomediatici che stanno ormai soppiantando le non meno sanguinose arene dei Sanremo che furono. Le recenti edizioni hanno fatto ascolti così buoni che perfino il Festivalone più imbolsito d’Italia ha capito che conviene allearsi piuttosto che andare allo scontro frontale. Buon per le Ventura e le De Filippi, un po’ meno allegre le prospettive per gran parte dei protagonisti delle recenti mattanze (in buona parte destinati all’oblio prima ancora della prossima stagione), e soprattutto per chi dai mercati canzonettari s’aspetterebbe qualcosa di più di una vagonata di polpettoni monogusto. Che lo show-business abbia ormai fagocitato il music-business non lo scopriamo certo ora. Forse non sarà il male assoluto, ma certo la cosa non entusiasma neppure la maggioranza degli addetti ai lavori. E per un sacco di buone ragioni. In primis perché questa omologazione ad un pensiero unico del pop annoia (come annoiano fin dal primo ascolto tutti i dischetti cui mi riferivo in apertura). In secondo luogo, perché tener desta l’attenzione su questi nuovi baracconi toglie ulteriori risorse, spazi e visibilità a tutto ciò che non rientra nei nuovi canoni (vale a dire a buona parte della musica degna di tale nome). In terzo luogo perché questa rincorsa esasperata alla novità rischia di bruciare talenti più velocemente di un forno crematorio, e ben prima che abbiano il tempo per maturare. Dulcis in fundo, perché l’altra faccia di questa estetica dell’immediatezza ha quasi sempre il volto della banalità contenutistica: in altre parole, induce i fruitori ad una forma sempre più estrema d’anoressia culturale, ne atrofizza i muscoli intellettuali, li assuefà al brutto o all’inutile. Ma questo è. E non sarà certo l’ennesimo peana d’uno scribacchino a porvi rimedio. Il punto è che se questa logica inflazionistica del pop usa e getta continuerà a restare l’unica vincente, alla fine della fiera s’uscirà tutti perdenti; perfino quei discografici che oggi gongolano convinti d’aver trovato una nuova covata di gallinelle dalle uova d’oro. A suo tempo i vari De Andrè e i Paolo Conte ebbero ovviamente tutt’altre palestre dove crescere e forgiarsi; i loro potenziali eredi (che pure ci sono) hanno oggi nicchie infinitamente più ristrette, e mercati ancor più marginali. Del resto la cultura musicale (la sola che, sì, ha tutto il diritto di chiedere il ribassamento dell’iva al 4 per cento) è sempre stata abituata agli spiccioli. Quella dei fattori x e degli amici degli amici è tutt’altra musica. Certo, anche i bravi canzonettari d’occidente hanno un sacrosanto diritto ad esistere, ma di questo passo sarà sempre più dura anche per loro. È ancora presto per dire se Carta e la Ferreri faranno la stessa fine dei Taricone e dei suoi piccoli fratelli, così come è difficile preconizzare se i loro eredi di quest’anno riusciranno anche solo a ripeterne le gesta. Certo è che né gli uni né gli altri potranno reggere all’usura modaiola e ai pressing degli incombenti che verranno, se non sapranno liberarsi dalla garrota catodica che li ha generati. Quanto a noi, basterà avere un po’ di pazienza e d’ottimismo: passerà anche questa, e la prossima ben difficilmente potrà essere peggiore.