La fiducia che manca
Torna a farsi vivo lo spettro della débacle economica, anche se le circostanze non sono per niente quelle del 2001. Al di là degli errori di gestione, che pur ci sono, il Paese ha bisogno di credere in sé stesso
Se, per una determinata ragione, siamo obbligati ad avventurarci per un sentiero impervio ed esposto su un baratro e se durante l’accidentato percorso continueremo a ripeterci: «Adesso cado, adesso cado…», è altamente probabile che presto o tardi cadremo. Di tanto in tanto, in Argentina si verifica una congiuntura del genere. Una delle ragioni è la cronica mancanza di fiducia tra i vari attori sociali e politici, più concentrati sugli interessi individuali o settoriali che sul bene comune. Ovviamente, questo non accade solo nel Paese sudamericano. Possiamo leggere in questa chiave le crisi vissute altrove, dove il vero e più grave deficit è quello di beni comuni.
In questi giorni, i mercati finanziari hanno penalizzato duramente l’Argentina con una pesante svalutazione della sua moneta. Nel giro di pochi giorni il dollaro è passato da valere 18 pesos a 24. Altrove questa situazione non avrebbe provocato problemi: tutto sommato, le merci da esportare sono meno care, anche se diventano più care le importazioni. In sostanza l’economia nazionale cresce, tra il 2,5 ed il 3 per cento. Non è molto, ma nemmeno poco. Eppure, lo slittamento del peso ha fatto sì che nel Paese si accendessero le luci d’allerta e sono riapparsi i fantasmi della déblacle finanziaria e del collasso dello Stato registrato alla fine del 2001.
Perché? Sebbene in Argentina si usi il peso come moneta locale, gran parte di coloro che accumulano un capitale risparmiano in dollari. È un segnale che da solo parla della poca fiducia nella moneta locale. Di recente, un ministro ha detto chiaramente che è più affidabile accumulare dollari che pesos. Altrove sarebbe bastato per chiedergli le dimissioni ipso facto, perché è poi difficile presentarsi davanti a un pubblico di investitori stranieri in tali condizioni. Coloro che decidessero di scommettere sull’economia argentina lo farebbero esigendo un livello di vantaggi, da ottenere immediatamente, con la riduzione dei benefici locali.
Da più di un anno, il Paese importa più di quanto esporti. Sono ormai passati gli anni in cui l’attivo commerciale era dell’ordine degli 8-10 miliardi di dollari annui. Il che spiega la scarsezza di dollari. Nel frattempo, non va dimenticato, il governo lotta per ridurre l’inflazione, che la gestione precedente aveva lasciato a un livello superiore al 30 per cento, insieme a un rosso di bilancio sproporzionato, finanziando ai cittadini acqua, luce, gas e trasporti per anni, quasi senza criterio.
La combinazione di inflazione ed elevata spesa pubblica è stata letale: a tutt’oggi, seppur siano stati messi in moto aumenti delle tariffe (a volte in modo scriteriato) si continuano a finanziare tali servizi in media intorno al 20 per cento del loro valore. Il dibattito tra chi vuole ridurre la spesa pubblica e chi vuole mantenere le politiche sociali, in un Paese dove la povertà è tornata intorno al 30 per cento, gestendo in qualche modo la protesta sociale per i salari rosicati dall’inflazione –i supermercati nel dubbio, non si sa mai, ritoccano i prezzi –, ha messo in luce una realtà sociale e politica nella quale ciascuno guarda il proprio orticello, smarrendo il senso del bene comune.
Un significato politico che l’équipe di tecnocrati che Macri ha messo alla testa del suo esecutivo non ha saputo identificare, né indicare. Lasciando l’impressione di governare a favore dei settori più benestanti, forse convinti che se a loro andrà bene, ciò riverserà sull’economia i proventi della loro attività. Una ricetta neoliberale che non ha avuto importanti riscontri empirici nel mondo, mentre i settori meno abbienti soffrono penose situazioni di degrado. Un senso del bene comune che nemmeno l’opposizione legata alla ex presidente Cristina Kirchner ha dimostrato di avere; l’opposizione non ha dato segnali di rendersi conto dello stato pietoso in cui ha lasciato le casse statali e gli investimenti in opere pubbliche, spesso volatilizzatisi in mazzette finite nelle casseforti di speculatori del loro stesso settore.
Per ottenere i dollari necessari ai suoi impegni, il governo è ricorso ai creditori del mercato finanziario internazionale, che lo hanno fatto a tassi esosi. Il che ha aumentato il debito pubblico, anche se in rapporto al Pil non si tratta di una cifra preoccupante. Nel frattempo si sono combinati altri due fattori: non sono arrivati gli investimenti esteri nella misura sperata, anche perché una economia instabile non invita a rischiare. Inflazione e svalutazione hanno introdotto un certo nervosismo tra i creditori che, nel timore di una nuova insolvenza argentina, hanno cercato di disfarsi dei titoli acquistati in precedenza. Il che dimostra quanto poco affidabile siano i mercati finanziari: se temevano l’insolvenza perché hanno prestato? Ma se non ci sono problemi di insolvenza, visto che finora il Paese ha fatto fede ai suoi impegni, perché fuggire?
Macri, che è ancora distante dall’acquisire una visione della realtà che non sia presa in prestito dal tecnocrate di turno al suo fianco, ha preso la decisione di tornare a bussare alla porta del Fondo Monetario Internazionale, cacciato letteralmente dall’Argentina dai Kirchner dopo aver pagato quasi 10 miliardi di dollari dovuti.
Apriti cielo! È riapparso un fantasma che rinfocola un circolo vizioso di sfiducia nel governo, tra i settori politici, tra settori industriali e finanziari, tra settori del commercio, tra la cittadinanza. Si può credere in un Paese che non crede in sé stesso? Direbbe Nanni Moretti: «Continuiamo così, facciamoci del male». Non è solo un problema argentino. Nel vicino Brasile troviamo elementi comuni, che indicano la necessità di un gran patto sociale che affronti un nodo fondamentale: come generare crescita economica e, contemporaneamente, dividere meglio la torta della ricchezza, per non creare legioni di esclusi. E l’Argentina già la divide meglio di altri! È ricca di risorse naturali ed umane. Ma ha bisogno di assicurare una continuità di politiche di Stato che evitino le sue crisi cicliche. Non ha bisogno di uno shock di capitali, ma di fiducia.