La Fiat e l’Italia. Tutto è cominciato a Pomigliano

Discriminazioni, ricatti occupazionali e futuro della produzione in Italia: intervista a Giuseppe Farina, segretario generale dei metalmeccanici Cisl
Fiat Pomigliano

Vista dalla Cina è sembrata, a Sergio Marchionne, una questione lontana e poco significativa. Mentre inaugurava il nuovo stabilimento del primo modello prodotto nella provincia cinese di Hunan, la sentenza del tribunale di Roma, che condanna la Fiat per comportamento discriminatorio nei confronti degli iscritti della Fiom, è apparsa «folcloristica», come hanno riportato le agenzie di stampa.
 
I legali della multinazionale hanno ovviamente fatto presente che il ricorso in appello è già pronto e che, se obbligati ad assumere, procederebbero a mettere in mobilità o in cassa integrazione un numero equivalente di lavoratori. Ma la notizia sicuramente più significativa riguarda il nuovo assetto della Fiat Industrial, già separata dal settore auto e ora assorbita, assieme a Cnh (macchine agricole), da una società di diritto olandese controllata dalla Exor, finanziaria degli Agnelli.
 
La società non sarà più quotata alla Borsa di Milano ma in quella di New York e Amsterdam. Un indice di quella tendenza a spostare cervello e cuore fuori dall’Italia, che desta preoccupazione anche per il settore auto che ha visto, in Europa, un crollo delle vendite nel primo semestre di oltre il 20 per cento. L’ultima dichiarazione di Marchionne, durante la presentazione della 500L prodotta in Serbia, prevede la chiusura di uno stabilimento italiano se le condizioni del mercato non cambieranno entro tre anni. Di fronte a questi scenari e alle possibili soluzioni, abbiamo rivolto alcune domande a un interlocutore di primo piano della vertenza nazionale Fiat, il segretario generale della Fim Cisl, Giuseppe Farina.
 
Qual è il suo parere sulla sentenza che ha condannato la Fiat per atti discriminatori contro la Fiom?
«Sull’argomento va ribadita una premessa importante: l’accordo che abbiamo firmato con riferimento allo stabilimento della Fiat di Pomigliano non prevede, per definizione, alcuna discriminazione, ma la riassunzione di tutti i lavoratori nella nuova azienda. Ci troviamo dentro un processo di riassorbimento che è ancora in corso. È la prima volta che mi capita di dover misurare, in un processo in corso, la percentuale di rappresentanza per sigle di iscrizione al sindacato. Di solito è una verifica che si compie al termine del piano di riassunzione. La tempistica dei rientri risponde alle esigenze tecniche e alle competenze professionali individuali. La sentenza arriva a un giudizio di merito a proposito di una procedura aziendale che non è conclusa. La discriminazione è stata inoltre accertata in base a un calcolo statistico di probabilità. Una modalità che lascia perplessi e apre altri problemi».
 
Quali?
«Esiste il serio rischio che così facendo si producano altre discriminazioni a danno di lavoratori che hanno il medesimo diritto a essere richiamati e si vedono scavalcati dai 145 che il datore di lavoro sarebbe costretto a riassumere perché iscritti alla Fiom Cgil. Abbiamo, per esempio, molti delegati della Fim Cisl che devono rientrare. Se ci mettiamo a fare il conteggio con il bilancino in corso d’opera, rischiamo di attivare una serie infinita di ricorsi. Penso che le sentenze della magistratura vadano, comunque, tutte rispettate ed eseguite, anche se appaiono non convincenti come in questo caso in cui sembrano complicare più che risolvere il problema».
 
Marchionne ha rilasciato dichiarazioni dalla lontana Cina definendo la sentenza del tribunale italiano una questione di folclore locale.
«Penso che un gruppo multinazionale non possa ignorare e non rispettare le sentenze della magistratura italiana. Ripeto, però, che si tratta di una sentenza difficile da applicare».
 
Eppure esponenti storici dei metalmeccanici Cisl hanno invitato il suo sindacato a denunciare il comportamento discriminatorio della Fiat contro gli operai della Fiom anche a Termoli, dove in busta paga gli iscritti Cgil hanno, in media, 200 euro in meno degli altri dipendenti. Cosa ne pensa?
«Credo che, in quel caso, l’azienda abbia agito in maniera cristallina. I lavoratori della Fiom hanno vinto una vertenza davanti al giudice chiedendo esplicitamente l’applicazione del contratto collettivo del 2008, che prevede retribuzioni di base inferiori a quelle concordate nei successivi contratti 2009 e 2011, non firmati dalla Fiom. Il problema, quindi, appartiene a un sindacato che intenta delle cause in maniera tale che la vittoria davanti al tribunale produca un danno economico per i propri iscritti. La Fiom dovrebbe perciò interrogarsi seriamente sui propri errori».
 
Il nodo centrale rimane comunque la credibilità del piano “Fabbrica Italia” della Fiat. A inizio luglio avete organizzato un seminario a Torino proprio sulla “Fiat del futuro”. Continuate ad avere un giudizio positivo sul piano industriale nonostante tante analisi che parlano dell’abbandono dell’Europa da parte di Marchionne?
«Il piano industriale della Fiat è stato presentato a dicembre 2009 a Palazzo Chigi con la previsione dell’investimento di 20 miliardi di euro nel settore auto. Da quella data le cose sono oggettivamente cambiate. Le previsioni su cui si basava il progetto, tuttora confermato, partivano da una situazione del mercato diversa da quella che si è andata a produrre. Esistono al momento dei rallentamenti degli investimenti che fanno sorgere dei seri interrogativi sul futuro, ma se siamo ancora qui a parlarne è grazie al referendum di Pomigliano, con il quale è stato accettato il piano di sviluppo della Fiat. Se fosse dipeso dalla Fiom, tutto si sarebbe concluso nel 2009. Noi e gli altri sindacati abbiamo approvato responsabilmente le condizioni contrattuali e i nuovi modelli organizzativi che l’azienda poneva per dare il via libera agli investimenti. La Fiat ha, quindi, preso con noi degli impegni precisi e non saremo d’accordo con nessun ridimensionamento del piano prestabilito in Italia. Se poi la Fiat deciderà diversamente, di fronte a previsioni negative di medio periodo, noi domanderemo l’intervento del governo perché chieda alla Fiat di onorare l’impegno preso. A differenza di altri, abbiamo fatto di tutto per mantenere la produzione e gli impianti in Italia. Paradossalmente il successo della Fiom coinciderebbe, invece, con la chiusura degli stabilimenti in Italia: una strana vittoria».
 
Ma la Fiat, limitandoci al settore auto, ha già chiuso Termini Imerese. Aveva pensato di rilanciare lo stabilimento siciliano ma, alla fine, ha detto che non conviene produrre auto, denunciando bassa produttività e assenteismo. Di fatto sembra un invito a non investire in Italia. Come la spiega questa strategia?
«Esiste una seria attenzione da parte del nuovo governo che mi sembra intenzionato ad affrontare il problema di Termini Imerese con un nuovo progetto industriale, dopo il tramonto dell’ipotesi Dr Motors. Si tratta, innanzitutto, di far rispettare l’accordo che riguarda un gran numero di “esodati” che rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione. Ma il problema principale consiste nel fatto che, pur di fronte a uno stabilimento in buono stato, concesso gratuitamente, a 450 milioni di euro messi a disposizione da governo e regione, non si riescono a trovare investitori disponibili a rischiare. È il problema che ci deve far interrogare profondamente, perché manchiamo di attrattiva come Paese. Riguardo, poi, al modo rigido di porre le questioni da parte della Fiat, devo ribadire un giudizio non positivo».
 
Si tratta del famoso “modello gerarchico sabaudo”.
«È un atteggiamento sbagliato che va superato, come ho avuto modo di dire a Marchionne direttamente. La Fiat sta cambiando radicalmente ma ancora non ha deciso come cambiare il rapporto con i sindacati e i lavoratori. Accanto al piano industriale occorre un nuovo piano di relazioni sindacali che metta al centro il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori».
 
Resta il fatto che i sindacati restano divisi e quindi più deboli.
«Noi portiamo avanti la lotta per mantenere gli stabilimenti in Italia in un momento di seria difficoltà. Se vogliamo essere espliciti, tutto è partito dallo scontro di Pomigliano dove, di fronte a un soggetto che decide di investire, non si può rispondere come ha fatto la Fiom, che non ha riconosciuto un accordo firmato dalla maggioranza dei sindacati e poi non ha accettato il risultato del referendum con una serie di cause intentate contro la Fiat».
 
Ma quel referendum non è stato considerato come un voto libero davanti al piano B (la chiusura, ndr) di Marchionne.
«Nel nostro mestiere è quello che avviene tutti i giorni. Siamo pesantemente condizionanti dal “ricatto” occupazionale pur di salvare il lavoro. Quando faccio un accordo di mobilità o di cassa integrazione, quale libertà riesco a esercitare? Quali alternative riesco a dare al lavoratore? E parlo di migliaia di aziende dove accordi del genere del tipo Fiat li abbiamo firmati assieme alla Fiom. Nella vertenza cominciata a Pomigliano c’è una componente ideologica che richiama la lotta di classe verso un simbolo come la Fiat, la quale non ha certo difficoltà ad alimentare lo scontro».
 
Forse la via di uscita è quello di un sindacato multinazionale come lo sono le imprese ?
«È questa la via del futuro, con l’aspettativa che si riesca a mettere insieme una forma di rappresentanza più alta dell’industria nel suo complesso. È ciò che abbiamo iniziato a fare con i metalmeccanici. A livello europeo esistono accordi ancor più restrittivi di quelli introdotti a Pomigliano. Dobbiamo interrogarci su come difendere in maniera reale il lavoro e gli impianti senza chiuderci in gabbie ideologiche».
 
 

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