La festa ha preso il via
I soldi non sono molti (lo si vede dalla diminuzione drastica degli stand e dai prezzi aumentati dei luoghi di ristoro), la folla del passato non è più quella, ma ragazzini e giovani ci sono sempre – c’è l’appuntamento con i film della sezione “Alice in città” –, come le famiglie. Ma non è certo l’aria di dieci anni fa, quando la festa-festival iniziò alla grande, auspice Walter Veltroni ed il suo fiuto politico-culturale ben orientato. È vero, ci sono stati gli incontri del pubblico con Joel Coen e moglie e Jude Law (che però ha snobbato il tappeto rosso) e ci saranno ancora quelli con Sorrentino, Renzo Piano, Riccardo Muti…
Per fortuna ci sono i film, che poi sono quelli che danno il “tono”, checché se ne dica, ad una manifestazione che parla di cinema nella “città del cinema”, e che impedisce la scivolata nel nazional-popolaresco dell’evento.
Diciamo subito che qualche bel lavoro c’è stato e ci sarà. Una volta tanto diamo merito all’Italia di aver presentato l’opera prima del romano Gabriele Mainetti, 38 anni, Lo chiamavano Jeeg Robot. Storia molto borgatara del delinquentello periferico Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) che entra in contatto con una sostanza radioattiva che gli fornisce superpoteri. Ovvio, lui pensa di usarli per i furti, ma gli capita in casa una stralunata ragazza, Alessia (Ilenia Pastorelli), convinta cha lui sia l’eroe del cartone giapponese Jeweg Robot. In mezzo ci si mette un altro delinquente (Luca Marinelli), scoppia il conflitto e… Le citazioni di genere pulp e crimen-story sono evidenti e Roma è ancora più brutta che in Suburra. Ma la gangster story, spiritosa a suo modo, violenta e tenera, sta in piedi grazie al rimo serrato, visionario, e a due attori, Santamaria e il trasformista Marinelli, davvero eccellenti. Logico l’entusiasmo di critica e pubblico. Ci sono giovani ancora in Italia che amano il cinema e lo sanno fare.
Gli States, ovvio, non mancano. La commedia leggera ma non troppo Mistress America di Noah Baumbach, mette in gioco i giovani – donne sopra tutto – americani in cerca di identità, di sicurezza, di sapere cosa fare nella vita ora che tutto sembra essere disponibile e al contempo lontanissimo. Vivace, con dialoghi a raffica, rapido, il racconto vede una gioventù di fatto smarrita e in cerca di risposte esaustive. Ma ci saranno?
Altra cosa Freeheld di Peter Sollet, storia di amore lesbico tra una detective – la bravissima Julianne Moore – ed un ragazza. La poliziotta si ammala di cancro e si inizia la lotta per far sì che la sua pensione passi alla compagna. Insomma, si narra di diritti civili omosessuali e (sottinteso ma non troppo) di matrimonio gay. Troppo furbo e schierato per essere convincente – ed inopportuno –, con i soliti cliché sui gay, gli ebrei ed i preti neri “aperti”, il film è debole: non basta raccontare una storia arcinota e lacrimevole per far del buon cinema convincente, libero da demagogie.
Interessante invece il trhiller psicologico dell’irlandese Lenny Abrahamson Room, sulla storia vera di una madre segregata col bambino dell’amante in una stanza. Qui fantasia e dolore creano un rapporto fortissimo tra madre e figlio, difficile poi a continuare quando i due tornano nel mondo.
Come si nota e come ha detto il direttore artistico Monda, i “generi” cinematografici si affiancano – giustamente – l’uno all’altro. Il fascino della “sala buia” e del “grande schermo”, nonostante tutto, rimane. Forse è il messaggio che Roma può lasciare ai giovani.