La Festa dell’Autonomia, 73 anni dopo

Una riflessione sul riconoscimento dello Statuto autonomo della Regione avvenuto nel conflittuale periodo del secondo dopoguerra e riconfermato nella Costituzione repubblicana
Palazzo dei Normanni. ANSA / FRANCO LANNINO

Era il 15 maggio 1946: il re Umberto II che, di lì a poco, con il referendum del 2 giugno, sarebbe stato costretto a cedere il trono ed a scegliere la via dell’esilio, emanò il decreto che varava lo Statuto Autonomo della Regione Siciliana.

Uno statuto che fu un estremo tentativo dello Stato italiano (la Repubblica non era ancora nata, ma De Gasperi, Nenni e Togliatti erano già le figure politiche di riferimento della nuova Italia), di bloccare sul nascere le spinte autonomiste siciliane, rinfocolate nel periodo bellico dalla presenza dell’Evis (l’esercito indipendentista) e soprattutto dalle strane alleanze di alcune parti dei vertici e dell’esercito statunitense con “pezzi” della società siciliana, più legata alla mafia rurale, al brigantaggio.

Finito il conflitto bisognava regolamentare e frenare le spinte che, proprio dal periodo bellico avevano tratto maggiore forza e vigore. Lo Statuto entrò in vigore il 15 maggio 1946. Sarà interamente recepito dalla Costituzione italiana del 1948 e ne costituirà parte integrante (unica tra le regioni a statuto speciale).

La Sicilia non aveva mai dimenticato di essere Stato e Nazione. Il Regno di Sicilia era divenuto viceregno spagnolo (quando la Sicilia scelse il Re aragonese), poi venne il regno delle due Sicilie e di Borbone.

Il Parlamento siciliano è il più antico Parlamento d’Europa. Precede quello dell’Inghilterra che, però, a differenza di quello siciliano è il più antico ancora esistente. Per la Sicilia, invece, una lunga cesura temporale fino alla nuova Ars (Assemblea Regionale siciliana) che solo in Sicilia prende questo nome (insieme a quello di Parlamento siciliano). Solo in Sicilia i “consiglieri regionali” si chiamano anche “deputati”. Al di là del nome e del blasone, sicuramente antichissimo, resta un dato ineluttabile: quello siciliano è, a tutti gli effetti, un consiglio regionale, con compiti più o meno simili (tranne le peculiarità autonomistiche) a quelle di altre regioni. Mantenere il nome di “parlamento” appare oggi qualcosa di folkloristico.

L’unità d’Italia, di certo, non fece bene al Sud e soprattutto alla Sicilia. Le riletture più recenti della storia risorgimentale consegnano dei dati storici che propendono, sempre di più, per una rivisitazione di quell’unità d’Italia e di quella liberazione dal regime borbonico che invece aveva saputo creare i presupposti di uno stato moderno (vedi la realizzazione delle prime industrie e delle prime ferrovie). Senza contare i soldi trasferiti sic e simpliciter dalle casse del Regno delle Due Sicilie a quello del Regno di Piemonte, divenuto ben presto Regno d’Italia.

Dati storici alla mano forse bisognerebbe rileggere l’unità d’Italia. Ma indietro non si torna ed il nuovo Stato unitario non dovrebbe essere più in discussione.

I “torti”, veri o presunti, non cancellano 158 di storia unitaria. Pur nel rispetto delle peculiarità regionali, esso è una realtà e patrimonio di tutti. Ma oggi è nuovamente a rischio. Per le spinte autonomistiche basate, ancora una volta, su presupposti economici. Che non restituirebbero mai al Sud ciò che ha perso in questi anni e che rischierebbero di allargare il divario di un’Italia sempre più a due velocità.

Autonomia significa salvaguardia e valorizzazione delle diversità. Se essa diventa egoismo e chiusura il rischio è altissimo. Per tutti. Per la tenuta democratica dell’intero paese.

 

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