La festa degli Oscar
È andata male per Steven Spielberg. Diciamolo subito, è lui il grande sconfitto dell’edizione Oscar 2013, quella che festeggia gli 85 anni di vita. Si prende solo la statuetta per il miglior attore Daniel Day-Lewis – ma che attore, recita poco ma ogni volta lascia un gran segno – nel suo Lincoln ed un’altra come Production designer. Si vede che ai giurati il filmone spielbergeriano, duro, teatrale e acutamente “politico”, non è piaciuto troppo. Troppe ferite ancora da rimarginare o troppo acuta l’indagine sui meccanismi interni della politica (indubbi i riferimenti all’oggi…)? Non è stato premiato nemmeno Leonardo Di Caprio che in Django di Tarantino ha offerto una interpretazione scespiriana di rara bravura, ma la statuetta è andata invece come miglior attore non protagonista al talento indiscusso di Christoph Waltez, sempre nel film tarantiniano, ed è sfuggita a gente come Bradley Cooper (Il lato positivo), Joaquin Phoenix (The Master) e Hugh Jackman (Les Misérables), ossia ad attori navigati in performance di gran classe.
Ce l’ha fatta invece Anna Hathaway come miglior attrice non protagonista dei Misérables. Quanto poi al favorito La vita di Pi (The life of Pi) di Ang Lee (la storia favolistica del ragazzo e della tigre sull’oceano) si è presa ben 4 oscar: miglior regia, fotografia, colonna sonora, effetti speciali. Un bel gruzzolo di premi per un film spettacolare, magico (e furbetto, gli americani ci sanno fare anche in questo ed Ang Lee è un maestro nel genere).
Per quanto riguarda l’estero, l’Italia al solito a bocca asciutta. E speriamo non ci siano le nostre consuete lamentele di provinciali esclusi. Certo, abbiamo talenti come Salvatores, Garrone, Tornatore, però occorre dire che i loro film piacciono più per la cura della forma, che non fa una grinza, che per lo spessore: manca un volo alto, una visione universale. Insomma, i nostri autori – sia detto con assoluto rispetto – sembrano lo specchio delle piccole anime della nostra nazione, almeno per ora… Perciò la vittoria come miglior film straniero del discusso (e discutibile come tesi) film Amour di Michael Haneke è un premio considerevole ad un lavoro di spessore morale, oltre che interpretato magnificamente.
E veniamo alla vittoria di Ben Affleck, regista e interprete di Argo (miglior film, miglior sceneggiatura non originale). Naturalmente, il film ha fatto discutere e molto negli Usa, dato che narra l’intervento della Cia che nel 1979 libera da Teheran 52 ostaggi americani nelle mani degli iraniani. Un fatto che non si conosceva e che apre prospettive inquietanti di analisi storica su fatti recenti. Certamente la regia e la recitazione di Affleck sono al punto giusto di calore, ritmo e verità rappresentativa. Ma forse quello che ha dato una ulteriore spinta alla vittoria, oltre agli indubbi meriti cinematografici, è l’idea dell’homo americanus che ancora riesce a salvare i suoi in qualsiasi parte del mondo e a liberarli dal male. L’interventismo patriottico della grande nazione Usa, campione della libertà a livello mondiale, forse ha avuto il suo peso. Non ci son nel film i risvolti ambigui della politica, come in Lincoln, qui è tutto chiaro, aperto e vincente.
Affleck si è preso il premio da una America che si considera ancora forte contro il male, decisa. E a 85 anni dal primo Oscar decide di essere ancora al primo posto nel cinema e sulla scena mondiale. Il film infatti si presta a una indagine di carattere politico-filosofico-morale ben profonda, e ben oltre le qualità indubbie di un attore che si sta rivelando un grande regista come Ben Affleck.