La ferita del pregiudizio e il balsamo del riconoscimento

Il riconoscimento degli altri è molto importante per ciascuno di noi, ma soprattutto per gli adolescenti, che lo vivono con sofferenza. Come aiutarli.

Se c’è una cosa che ferisce profondamente gli adolescenti questa è il pregiudizio. Innanzitutto il pregiudizio degli adulti, i quali li ritengono ingestibili, problematici, inadeguati ad affrontare la complessità della vita, in vario modo incompleti, se non del tutto sbagliati. Ma anche il pregiudizio dei coetanei, sempre pronti a cogliere ciò che rende un ragazzo diverso dal gruppo, come se la differenza possa rendere una persona da meno rispetto agli altri. Dovunque alberghi l’incapacità di cogliere la completezza di chi si ha di fronte si crea una ferita. E per gli adolescenti questa ferita, anche se nascosta per difesa, è decisamente profonda.

Potremmo definire il pregiudizio come una pre-comprensione dell’altro, basata su quello che conosciamo di lui o che altri ci hanno detto a suo riguardo, la quale si trasforma in una specie di fretta che ci impedisce di comprendere quello che realmente una persona sta mostrando di sé, perché pensiamo di sapere già tutto ciò che c’è da sapere. Questo significa che il pregiudizio ci impedisce di incontrare l’altro, dal momento che ci mette in contatto solo con l’idea che noi abbiamo di lui e non con la sua realtà. Nelle relazioni questo equivale a mettere un muro tra noi e loro, un muro che impedisce di vedere gli altri per ciò che autenticamente essi sono.

La presenza di un simile muro rappresenta un grande problema nell’adolescenza, perché a quell’età forse ancor più che in altre i ragazzi hanno bisogno di essere rispecchiati da chi gli sta intorno per capire chi sono e chi possono diventare. Il compito degli adulti, infatti, è quello di essere specchi che rimandano l’immagine dei più giovani per rendere loro possibile comprendere cosa stanno diventando e a cosa possono aspirare. Ma se quegli specchi, invece di essere limpidi, riflettono un’immagine distorta dal pregiudizio, diventa impossibile definire in modo sano la propria identità. Il pregiudizio è infatti una semplificazione – distorta e parziale – della realtà che non potrebbe mai contenerla nella sua interezza e che, soprattutto, mai e poi mai potrebbe rispecchiare la realtà in continuo mutamento di chi sta ancora esplorando il mondo e se stesso nel mondo.

Il bisogno di rispecchiamento da cui sono caratterizzati bambini e ragazzi è l’espressione di quel bisogno di riconoscimento che denota ciascun essere umano, giovane o anziano che sia. A qualsiasi età, infatti, ognuno di noi ha insita dentro di sé la necessità di instaurare contatti interpersonali in cui possa sentirsi visto e compreso per ciò che autenticamente è, così da poter dare forma alla propria identità. Dal momento che la natura umana è essenzialmente relazione, non basta la consapevolezza di sé che ognuno di noi si costruisce nel tempo per sentirci completi ed appagati: abbiamo bisogno di essere riconosciuti dalle altre persone.

Ciò vuol dire che l’identità di una persona non è mai un dato immediato, bensì il risultato dell’incessante dialogo tra il sé e l’altro: dare forma alla propria identità implica inoltre riconoscere l’altro che è in dialogo con me, riconoscerne il valore, perché per conoscere me stesso ho bisogno della sua mediazione. Chiaramente l’unica relazione in grado di rendere possibile tutto questo e di permetterci di realizzare la nostra identità è quella che Martin Buber definiva come relazione “Io-Tu”, in cui costituiamo per l’altro una persona dotata di dignità e di sentimenti propri, e non un oggetto privo di valore.

Come vivere tutto questo con i ragazzi che accompagniamo a vario titolo nella crescita, così da fornire loro il balsamo capace di curare le ferite del pregiudizio?

Imparando a vederli per ciò che autenticamente sono, senza tralasciare quello che non rientra nei nostri schemi o nelle precomprensioni che abbiamo su di loro, perché essi saranno sempre più di quello che possiamo “com-prendere”. Imparando a riconoscerli per ciò che sono, rimandando loro in modo limpido e senza distorsioni tutto quello che vediamo della loro essenza affinché possano vederlo anche loro. Imparando ad accettarli per quello che sono, il che non vuol dire evitare di correggerli se fanno qualcosa di inadeguato, bensì sapere distinguere tra il comportamento da modificare e la persona, la cui essenza è sempre valida.

Ma soprattutto imparando ad amarli per come sono, senza pretendere (più o meno consapevolmente) che cambino parti di sé per adeguarsi alle nostre aspettative e ai nostri desideri.

Il tutto senza aver paura di metterci in gioco autenticamente, evitando di fingere di essere qualcosa che non siamo, perché per diventare fonte di quel riconoscimento di cui i ragazzi hanno bisogno è necessario che prima di tutto veniamo accettati e riconosciuti noi come degni di fiducia. E con la fiducia dei ragazzi non si scherza!

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