La felicità è troppo poco
La pietra angolare dell’educazione della generazione dei nostri genitori consisteva nel mettere la felicità dei figli prima della loro. Sono numerose come i granelli della sabbia del mare le donne che hanno rinunciato, a volte liberamente, alla propria felicità per consentire ai loro figli di essere felici, o almeno più felici di loro. I sacrifici e i risparmi dei genitori erano in vista della felicità dei figli e dei nipoti – un mondo senza figli e la loro felicità non capisce più il risparmio, che diventa così investimento o speculazione.
È stata questa "dinamica intertemporale della felicità" che ha legato e affratellato le generazioni tra di loro, che ha fatto partire gli emigranti per mandare a casa la maggior parte del loro salario amaro, e che spesso li ha fatti ritornare. Il "tasso d’interesse" della felicità nostra e di oggi era negativo, perché pesavano più la felicità di domani e quella dei nostri bambini.
Al posto della ricerca della felicità individuale ha messo la "pubblica felicità", e la Costituzione italiana ha voluto il lavoro come sua prima parola, che rimandava a valori diversi dalla felicità: fatica, dovere, impegno.
Da questa prospettiva, che domina l’economia e sempre più la vita, non è quindi possibile scegliere di ridurre volontariamente la nostra felicità. Solo gli stupidi, si pensa, decidono intenzionalmente di ridurre il proprio benessere.
Questa descrizione delle scelte umane riesce a spiegare molte cose, ma è inutile o fuorviante quando dobbiamo spiegare quelle poche, ma decisive scelte dalle quali dipende quasi tutta la qualità morale e spirituale della nostra vita. Quando Abramo decise di incamminarsi con Isacco verso il Monte Moria non pensava certo alla propria felicità. Forse pensava soltanto alla felicità di suo figlio, ma certamente stava seguendo una voce, dolorosissima, che lo chiamava. E, come lui, tanti continuano a salire i Monti Moria della loro vita. I momenti, gli atti e le scelte nel corso della nostra esistenza non sono tutti uguali.
Ce ne sono molti, moltissimi, quasi tutti, dove la semantica della logica economica della ricerca della felicità riesce a spiegare molto, quasi tutto. Ma ci sono altri atti e altre scelte dove la ricerca della nostra felicità ci spiega poco o niente. Per capire che cosa succede in tali momenti, dobbiamo invece pensare che siamo chiamati a scegliere tra valori o principi diversi e in contrasto tra di loro. Ci sono molte cose buone nella nostra vita che non sono misurate sull’asse della nostra felicità, e alcune neanche sull’asse della felicità degli altri. Le scelte più importanti sono quasi sempre scelte tragiche: non scegliamo tra un bene e un male, ma tra due o più beni. E ci sono anche decisioni nelle quali usciamo dal registro del calcolo. E altri momenti dove non riusciamo neanche a scegliere, ma, forse, pronunciare docili soltanto un "sì". La terra è abitata da molte donne e uomini che in certi momenti decisivi non cercano la propria felicità.
Anche se Aristotele ci ha insegnato che la felicità (eudaimonia) è il fine ultimo, il sommo bene, nella vita i fini ultimi e i sommi beni sono più di uno, e possono entrare in conflitto tra di loro. Molte delle cose grandi e degne della vita si collocano all’incrocio di questi molti beni, ed è lì dove si fanno le scelte decisive. Felicità, verità, giustizia, fedeltà, sono tutti beni primari, originari, che non possono essere ricondotti a uno solo, fosse anche la felicità. Possiamo avere una chiara idea di quale è la scelta che ci farà più felici, possiamo includere in quella felicità quasi tutte le cose belle vita, anche quelle più alte, ma nonostante ciò possiamo decidere liberamente di non scegliere la nostra felicità se ci sono altri valori in gioco che ci chiamano. E magari alla fine scoprire una parola nuova: la gioia, che a differenza della felicità non può essere cercata, ma solo accolta come dono.
Chi ha lasciato il proprio segno buono sulla terra, non ha vissuto la vita inseguendo la propria felicità. L’ha considerata troppo piccola. L’ha vista, qualche volta, ma non si è fermato a raccoglierla; ha preferito continuare a camminare dietro a una voce. Alla fine della corsa non resterà la felicità che abbiamo accumulato, ma se resterà qualcosa saranno cose molto più vere e serie. Siamo molto più grandi della nostra felicità.
È allora veramente possibile "rinunciare alla mia felicità, per te". Con una sola differenza: queste cose ai figli non vanno mai dette. Non vanno dette a nessuno, forse neanche a noi stessi. Basta averle fatte, qualche volta, almeno una.