La fede in campo
International Stadium di Yokohama al termine della finale del primo mondiale di calcio del millennio. Nel bel mezzo della festa della vittoria brasiliana, un gesto poco comune agli occhi dei giornalisti europei: tutti i componenti della delegazione brasiliana si danno le mani al centro del campo e, avvolti nelle bandiere verde-oro, fra lacrime e sorrisi, pregano a voce alta un padrenostro. Un momento che ha generato un po’ di sconforto nei commentatori sportivi italiani che ancora in questo mondiale avevano trasformato un gesto di religiosità di Trapattoni (l’acqua benedetta versata sul terreno durante la partita contro la Croazia) in uno scoop giornalistico. Un gesto forte nel momento più alto e importante del mondiale che, tuttavia, non è isolato. Basta ricordare la preghiera del portiere Marcos all’inizio di ogni partita del mondiale: una preghiera pubblica. In verità gesti di religiosità e di fede durante manifestazioni sportive, in Brasile non sono per niente una novità. Le religioni si intrecciano – la nazione è un miscuglio di popoli e culture -, rifacendosi tuttavia al cristianesimo. Non sarà un simbolo di questa realtà proprio la sta- tua del “Cristo Redentore” su Rio de Janeiro, che con le braccia aperte pare accogliere tutta la nazione e le culture che la compongono? Dal segno della croce all’entrata nel campo di gioco alle magliette con messaggi di fede, religione e sport non sono due realtà incompatibili per i brasiliani. Molte squadre famose hanno l’abitudine di pregare insieme prima di entrare in campo. Non è raro per questo sentire il telecronista annunciare che l’allenatore ha finito le ultime istruzioni e che la squadra sta per entrare in campo perché “è già giunta l’ora della preghiera”. Nessuno si stupisce se dopo un gol il giocatore si inginocchia ed in atteggiamento di preghiera “festeggia” il suo successo, oppure se la squadra vincitrice dello scudetto ringrazia Dio con un pellegrinaggio ad un santuario della Madonna. Io sono brasiliana e sin da piccola mi sono abituata a vedere questi gesti di religiosità negli stadi di calcio. Nonostante riconosca che ci sia un po’ di superstizione e sincretismo in queste manifestazioni, mi emoziona ogni volta vedere il coraggio degli sportivi inginocchiati a pregare di fronte ad un mare di telecamere di tutto il mondo. Riconosco che per alcuni credenti europei questo sembri quasi un sacrilegio oppure pura superstizione, ma per noi brasiliani pare essere il gesto più ovvio. La ragione forse sta nel confronto tra due mentalità: l’una, che confina la religione all’ambito privato e vede nell’affermazione di un intervento divino quasi una intromissione indebita; e l’altra, quella latino-americana, che quasi non conosce la distinzione tra sacro e profano e vede la mano di Dio dietro ogni avvenimento. Alla fine della partita, proprio il “fenomeno” brasiliano del mondiale affermava: “Oggi Dio ha riservato a me e alla squadra questa gioia”. E se così si crede, perché non manifestarlo pubblicamente?