La fatica di “aprire”

Lasciarsi toccare dal dolore dell’altro, contaminarsi. Non è sempre facile, ma coraggio, gentilezza e compassione ci fanno scoprire di cosa siamo fatti

Chiudere e aprire, due parole diventate attualissime in questi mesi. La situazione sociale e politica in cui ci troviamo presenta certamente una grande complessità, tuttavia queste due semplici parole ricorrono, ricordandoci che sotto la superficie delle ideologie, delle posizioni, delle questioni, dei trattati c’è sempre l’essere umano, fatto di corpo e psiche, che di fronte ad un altro essere umano che arriva alla sua porta si trova di fronte ad una scelta: aprire o chiudere le frontiere, i porti, le case… Aprirsi o chiudersi.

L’apertura o la chiusura sono processi tutt’altro che esteriori. Hanno radici profonde dentro di noi, coinvolgono la dimensione psicologica e spirituale prima ancora che quella sociale e politica.

L’arrivo di un altro, diverso da noi, genera spesso paure e dubbi, rischia di mettere in crisi le nostre certezze, i punti fermi, le abitudini acquisite e consolidate nel tempo, può quindi destabilizzarci.  Si insinua il timore che l’altro possa sottrarci qualcosa, minacciare o rendere incerto il nostro futuro.

Se poi l’altro è portatore di una ferita, di fragilità con le quali non vorremmo venire a contatto, perché ci interrogano o ci rattristano, la paura diviene ancora più grande. La sofferenza propria o altrui risveglia nell’essere umano un forte impulso a fuggire, per evitare di entrare in contatto con emozioni quali tristezza, paura, rabbia, impotenza. Chi di noi, infatti, vorrebbe provare emozioni come queste?

Ci sono intere vite dedicate a difendersi da possibili rischi o focalizzate sul cercare di tenere tutto sotto controllo, così che il negativo non possa entrare. Vite chiuse come stanze asettiche con le finestre serrate e l’aria che sa di stantio. Aprire espone infatti al rischio di “contaminarsi” con l’altro, di scoprirsi diversi perché l’aria è cambiata e con essa il nostro modo di vivere lo spazio, di condividerlo.

Aprire è un movimento semplice, eppure costa molta fatica. Una fatica interiore. Perché richiede prima di tutto di saper accogliere tutte le parti di sé, comprese le emozioni e i pensieri più difficili, come la paura dell’ignoto, l’inquietudine, il dubbio.

Nel suo libro The Happiness Gap, Russ Harris, medico psicoterapeuta australiano, racconta come anche in situazioni di grande sofferenza è riuscito a scorgere nelle persone coraggio, gentilezza e compassione.

Qualcosa di inatteso: l’entrare in contatto con il dolore ci porta a scoprire di cosa siamo fatti.  Le aspettative e i pregiudizi cadono, resta l’essenziale. Coraggio gentilezza e compassione. Mediante il coraggio possiamo attraversare le nostre paure, senza doverle negare, o combattere. La gentilezza, se coltivata, può ridare colore alle relazioni tra le persone, tra i popoli.

Il sentimento della compassione, dal latino cum patior (soffro con), forse un po’ passato di moda e spesso usato con una valenza negativa, rappresenta la dimensione più autentica dell’essere umano che si lascia toccare dal dolore dell’altro, lo sente vicino e matura l’impegno a fare il possibile per alleviarlo.

«Creiamo la nostra vita attraverso le nostre azioni, non attraverso i nostri pensieri», sottolinea Harris. Coraggio, gentilezza e compassione: tre modi diversi di coniugare il verbo aprire. Coi fatti, non a parole.

 

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