La fantasia dei Mummenschanz
Una mano enorme fa capolino dal sipario chiuso sorretta da due gambe umane che appaiono piccolissime per effetto delle proporzioni. Scende in platea a scherzare col pubblico. Ne sopraggiunge un’altra e insieme aprono il sipario per dare l’avvio a un turbine fantasioso di sketch con figure dalle forme imprevedibili. Figure concrete, astratte; omini filiformi, lombriconi fluidi. Sono i Mummenschanz, la compagnia italo-svizzera artefice di un teatro silenzioso e immaginifico, più vicino alle arti visive e plastiche che ad altri linguaggi scenici. Composto di vecchi numeri e di nuove creazioni, il nuovo spettacolo 3×11 allude ai 33 anni di lavoro artigianale che resiste con coraggio alla tecnologia di oggi. I quattro mimi compongono microstorie dalla trama semplice come lo sono i materiali usati: carta, poliestere, plastilina, stoffa, gommapiuma. Burattinai di sé stessi agiscono con tute nere che ci privano della vista del loro corpo. Possono così dare vita a un immenso cuore che invade il palcoscenico per poi sgonfiarsi e ridursi a un brandello di stoffa; o nascondersi dentro un enorme tubo flessibile e acefalo che si allunga e si accorcia le gambe; o ad una testa a forma di spina elettrica che cerca nel buio il contatto con una presa, e l’incastro luminoso si compie. Con della creta sul viso, invece, generano fisionomie umane e di un bestiario che si sfalda e si modella continuamente. È un mondo antropomorfico, fumettistico, che libera molte associazioni possibili: Oskar Schlemmer e la poetica del Bauhaus, i colori alla Mirò, Calder e Léger, i balletti di Alvin Nikolais, i balli plastici del futurista Depero, il Teatro Nero di Praga. Tutto scorre con un meccanismo lucido, elaborato in ogni dettaglio nella sua visionarietà sottile. E nel silenzio. Ma almeno un filo di musica ad accompagnare alcune sequenze gioverebbe allo spettacolo. Al Teatro Olimpico, Accademia Filarmonica Romana. LA LUNGA ORA DI CAMPANA Due scarpe. Un tappeto circolare di fogli sparsi. Sopra, due sedie. Su queste sosta il poeta Dino Campana, a cui dà voce e corpo con vibrante partecipazione Vinicio Marchioni. Al poeta di Marradi l’attore romano dedica un monologo, La più lunga ora, ricostruendo un sofferto percorso interiore di sopravvivenza negli anni dell’internamento in manicomio. Non è più il poeta che, vagabondo, travolge ciò che incontra, come la piena di un fiume. Marchioni lo fissa nell’inseguire la vita e i suoi versi perduti, quei Canti Orfici smarriti che egli ricostruì con la fatica e la furia di chi non riesce a ricomporre la propria immagine. Rivive il tentativo di vendere personalmente le pagine di quel libro nei caffè letterari di Firenze pur di essere riconosciuto come poeta, pur di esistere. Emergono visioni, ricordi, tremori, e quel buio dello spirito che lo accompagnò nei quattordici anni di segregazione. Quaranta minuti sono forse troppo brevi perché tanta materia prenda corpo a sufficienza. Ma va lodata la convincente prova di Marchioni, che infine, sulla canzone finale Povera Patria di Battiato, fissa il vuoto lasciandoci un alone di misteriosa lontananza.