La fanciulla del West alla Scala di Milano
Peccato che un’opera così bella, un Puccini diverso dal solito, sia rappresentata tanto raramente in Italia. È la considerazione che nasce dopo l’esecuzione milanese alla Scala, con la direzione appassionata e rivelatrice di Riccardo Chailly e la regia, sobria e intelligente, di Robert Carsen.
Puccini si innamorò del dramma The Girl of the Golden West di David Belasco, che ascoltò senza capire l’inglese, ma con il fiuto unico che aveva, capì che c’era materia per qualcosa di nuovo. Lavorò con Civinini e Zangarini e nacquero i tre atti, un trionfo alla prima a New York, complice la direzione di Toscanini, il 10 dicembre 1910. Il quale, come usava talora, sforbiciò e aggiunse qua e là, e questa partitura è quella che finora si è sempre eseguita, anche se Chailly ha tentato di ricondurla all’originale.
Robert Carsen ha intuito che la storia di Minnie – ragazza che da sola gestisce in California un saloon frequentato da minatori, desiderata dal cupo sceriffo Race e invece innamorata del bandito Dick con cui alla fine se ne andrà –, andava accompagnata dalla proiezione sul fondo della scena di vecchi film western in bianco e nero, dando credibilità all’azione e chiudendo poi l’opera con la gente che entra in teatro ad assistere al dramma di Belasco. Per il resto, sul palco ben poco, se non coro e cantanti, i tavolini del saloon che vanno e vengono, fondali di una foresta nella scena in cui si tenta di impiccare Dick, riconosciuto come il bandito Ramerrez, e una soffitta grigia dove Minnie e l’amante si incontrano, ma anche dove avviene la celebre partita a carte tra lei e lo sceriffo in cui si gioca per la vita di Dick (lei bara e vince, ovviamente).
La musica è potente, densa di ricordi sinfonici europei, con una strumentazione raffinata che tende al chiaroscuro, aprendosi nei pochi momenti lirici (la romanza del tenore, famosa, "Ch’ella mi creda libero e lontano/ sopra una nuova via di redenzione") ma per il resto ricca di colori che tendono al grigio e alle sue sfumature: non stanca mai, come non stancano i frequenti interventi, molto belli e variati, del coro.
I protagonisti, come da tradizione, sono tre: il soprano che scopre l’amore col tenore bandito, il geloso che è il baritono. Ma intorno che folla, che sentimenti, il primo atto è un affresco fin troppo ricco di idee, il secondo e il terzo si stemperano in momenti indimenticabili come la musica sorda della scena del gioco di carte o quella – si direbbe alla Schönberg – della tentata impiccagione.
L’opera finisce in un addio in pianissimo, come in Aida. Ma qui il terragno Puccini non va incontro alla morte ma alla vita, però l’effetto è identico: il diminuendo delle voci sino all’inudibile appare l’ingresso in un altro mondo. Ossia, l’amore – sentimento potente in Puccini – dalla lotta e dalle ferite conduce a un’estasi molto terrestre, ma sempre estasi. Una volta tanto non si muore, come in Tosca e Butterfly. Qui Puccini tratteggia la psicologia femminile con una precisione e una felicità appaganti, aprendo la porta alla introspezione della glaciale Turandot.
Se l’orchestra si è distinta sotto il gesto espressivo di Chailly a delineare ritmi e colori con fuoco, come pure il coro, i tre cantanti – Barbara Haveman, Roberto Aronica, Claudo Sgura – intensi e credibili nella recitazione, sono parsi estremamente impegnati in una partitura che esige salti continui di registro, recitativi che si avvicinano al parlato, rari squarci lirici: uno sforzo vocale molto impegnativo (e qui si ricorda la coppia Tebaldi-Del Monaco, grandiosa a suo tempo).
Spettacolo da vedere, musica da riscoprire. Fino al 28 maggio.