La famiglia-azienda
Eleonora e Francesco mi contattano chiedendomi di incontrarli presto. «La situazione peggiora di giorno in giorno – mi dicono –, siamo estenuati».
Quando li incontro vedo sul loro volto la stanchezza e il dolore. Mi raccontano del loro sogno da fidanzati: “due cuori, una capanna”. E hanno iniziato così il loro viaggio insieme: uno stipendio minimo, una piccola casa in affitto, una vita di sacrifici ma arricchita da un amore grande che li spinge a condividere, a interessarsi all’altro, all’altra, a cercare costantemente un dialogo. Poi la nascita del figlio, difficoltà lavorative, la stanchezza che prende piede…
Una corsa contro il tempo, le scadenze, gli impegni, le pressioni lavorative. Giorno dopo giorno, un tempo viene meno: il loro tempo, il tempo di un sorriso, il tempo di un «Come stai?». Pian piano, ognuno si ritira nel suo angolino, nel suo affanno quotidiano, nei suoi problemi, nel suo mondo dove è solo, sempre più sfiduciato e deluso dell’altro.
L’unica comunicazione possibile resta quella sulle attività giornaliere. «Cosa hai fatto oggi?», «Com’è andata a lavoro?», «Hai comprato il latte?», «Sei andato in banca?». Sembra che l’incontro possa avvenire esclusivamente sul “fare qualcosa”.
Nelle situazioni come quella che vivono Eleonora e Francesco – di delusione rispetto alle aspettative –, le incomprensioni, il ripiegarsi su se stessi sembrano allontanare sempre più i cuori. Guardando alcune famiglie, ho avuto più volte l’impressione di una famiglia-azienda.
Perfetta divisione dei compiti, ognuno si assume le proprie responsabilità, si timbra ogni giorno regolarmente il cartellino di uscita e rientro a casa ed è previsto lo straordinario. Ma sono coppie in cui manca il calore, l’anima dello stare insieme, l’amore.
È un paradosso: la famiglia non potrà mai essere un’azienda perché il punto di partenza e quello di arrivo è lo stesso: solo l’amore. Altrettanto vero è il contrario: un’azienda non potrà mai essere una famiglia come oggi tanti vogliono far credere cercando di offrire ai dipendenti tutto ciò che dà una famiglia, in modo da diventare l’unico punto di riferimento… In un’azienda il punto di partenza e l’efficacia e quello di arrivo la produttività.
Nella comunicazione tra partner esistono due livelli: uno esprime l’essere, i sentimenti, le emozioni, la spiritualità; l’altro gli impegni, le attività. È opportuno che siano presenti entrambe le modalità.
Se parlare di ciò che c’è da fare diventa prevalente o esclusivo, si accende “la spia” dell’intimità.
È necessario fare rifornimento. Come? Smettendo di correre, fermandosi e guardandosi negli occhi.
Scompare così, un po’ alla volta, la nebbia dei nostri schemi, dei giudizi e pregiudizi, delle convinzioni… e vediamo l’altro, l’altra. Possiamo accorgerci che ha le occhiaie, che ha lo sguardo triste o impaurito o arrabbiato. E chiedere: «Come stai?».
Se riusciamo ad accogliere il suo cuore e a donare il nostro, “rifacciamo il pieno” di intimità, l’unico che ci fa sperimentare un livello di gioia profondo e intenso, quella che nasce dal sentire in noi la presenza dell’altro, dell’altra, e percepire che siamo in lui/lei. Solo l’intimità può soddisfare il bisogno di appartenenza profonda che alberga nel nostro animo.
E allora si sperimenta che né i soldi, né la sicurezza, né l’affermazione professionale, né i figli sono il pieno del quale abbiamo veramente bisogno nel nostro “viaggio insieme”. Il nostro pieno e l’abbraccio dei cuori.
Da: Rino Ventriglia, Le spie rosse dell'amore, cosa non fare nella vita di coppia (Città Nuova, 2013).
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