La fame del mondo nel nuovo secolo
Una mattina ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che il mondo è alla fame. Non è solo il negozio di alimentari sottocasa che ha aumentato i prezzi di pane, latte e pasta, quindi. È un problema mondiale, spaventoso, soprattutto nei Paesi più poveri. Ma come? Non siamo nel terzo millennio? E l’Onu e la Fao che fanno? Credevamo che il problema fame fosse ormai riservato a qualche sacca ineliminabile di poveri africani e invece ce lo troviamo in casa. Si sentono storie di anziani che, appena chiusi i mercati rionali, fanno il giro delle cassette di rifiuti per vedere se trovano una foglia di lattuga mangiabile. O di troppe famiglie che non arrivano a fine mese. In Inghilterra cominciano a razionare il riso. In Inghilterra, non in Bangladesh. Per non parlare delle folle affamate, in Asia e in Africa, che danno l’assalto ai convogli umanitari di aiuti alimentari. Aumenta la rabbia sociale anche in conseguenza dei sempre nuovi flussi migratori. Ma che sta succedendo? Dove abbiamo sbagliato Qualche tempo fa alcuni governi e multinazionali hanno deciso che era conveniente riconvertire le coltivazioni, con l’obiettivo di produrre biocarburanti invece di mais, grano e riso. Col prezzo del petrolio alle stelle, in questo modo si guadagna di più. Altri esperti hanno, a loro volta, indicato il vero colpevole nel cambiamento climatico, che ha colpito i maggiori Paesi produttori. La siccità è effettivamente una delle cause principali di fame nel mondo. Ma ormai sembra che qualsiasi problema mondiale dipenda dal clima: un colpevole perfetto su cui scaricare ogni disastro. Sui giornali arrivano poi le cassandre della sovrappopolazione: Si muore di fame perché siamo troppi, per cui bisogna limitare le nascite. In realtà le risorse ci sono, bisognerebbe distribuirle. Infine ci sono gli economisti, i quali spiegano che è aumentato il tenore di vita delle popolazioni asiatiche, per cui un cinese che vent’anni fa si accontentava di pochi chili di carne oggi ne consuma il doppio. Sempre gli economisti ci raccontano che, se è impazzito il prezzo del petrolio, ne consegue inevitabile l’aumento dei prezzi di trasporto, della mano d’opera ecc. Ma cosa si può fare? Le proposte dei responsabili degli organismi mondiali – l’abbiamo visto anche al recente vertice Fao – indicano di mitigare gli effetti degli aumenti, modificare la politica agricola, aumentare gli approvvigionamenti, garantire la sicurezza alimentare. Tutto giusto, anzi ovvio. D’altra parte, chi non ha saputo prevedere ed evitare questa crisi, riuscirà ora a trovare una soluzione efficace? In effetti quello che colpisce è proprio la sproporzione tra gli sforzi fatti, le migliaia di esperti e funzionari governativi impegnati e i risultati ottenuti. Si potrebbe ironizzare sul fatto che finché la fame non toccava casa nostra eravamo tranquilli, mentre solo ora ci preoccupiamo e alziamo la voce. Ma non c’è da scherzare: fa impressione vedere l’umanità intera che sembra proprio non sapere cosa fare, quasi stupita e scoraggiata dalla propria impotenza. Forse non è l’intelligenza che manca o la volontà, quanto la cultura e la motivazione giuste che stanno dietro le scelte. E non solo a livello mondiale, ma anche locale. Altrimenti ciascuno continuerà a pensare al proprio orticello: noi dei Paesi ricchi continueremo a sprecare enormi quantità di cibo ogni mese, i politici avranno come unico obiettivo quello di farsi rieleggere, preferendo soluzioni efficaci solo a breve termine, e chi si arricchisce continuerà a speculare indisturbato sulle borse e sui mercati mondiali. Partire dal contesto locale Che fare? La mia attenzione è attratta da alcune piccole notizie: i Paesi più poveri sono stati colpiti in modo disastroso da questa crisi alimentare, ma alcuni se la sono cavata meglio degli altri. Per esempio l’India che ha condonato i debiti di milioni di contadini; il Malawi che ha regalato agli agricoltori sacchi di fertilizzanti triplicando i raccolti; la Thailandia che ha dotato ogni villaggio di fondi per prestiti a condizioni vantaggiose. Piccole iniziative locali che hanno permesso però a questi Paesi di non sprofondare nella fame di massa. Per contro colpisce la notizia che altri agricoltori sono riusciti, grazie ai consigli degli esperti stranieri, ad aumentare il loro raccolto ma, non avendo silos dove conservarlo e strade per distribuirlo, l’hanno visto marcire e ora sono più poveri di prima. Certo, la fame a livello planetario si risolve ottimizzando le coltivazioni su larga scala, migliorando la resa delle sementi e modernizzando le tecniche di coltivazione. Ma non va dimenticato l’uomo, il singolo coltivatore locale con le sue esigenze specifiche, che solo lui conosce. Tanti piccoli coltivatori locali, aiutati e motivati, possono salvare una intera nazione dalla fame. E in modo duraturo, non sporadico. Accanto al produttore, c’è poi il consumatore. È la povertà che impedisce a milioni di famiglie di acquistare il cibo di cui hanno bisogno o gli strumenti semplici per produrlo da sole. Per non dimenticare casa nostra, ricordiamo che in Italia un minore su quattro è a rischio povertà. Tra l’altro, quella diffusa tra i poveri è di solito fame cronica, che rallenta o arresta lo sviluppo dei bambini. Una partita globale In questo contesto, quasi per uno scherzo della storia, i Paesi in via di sviluppo si trovano ad affrontare un problema sanitario grave quanto quello della fame, anche se opposto: l’obesità. Parte della popolazione uscita dalla povertà, infatti, nel giro di una sola generazione è diventata grassa, perché ha adottato improvvisamente lo stile di vita occidentale, sedentario, che mangia continuamente carne invece di frutta e verdura. Follie del nostro pianeta. La partita è estremamente complessa e nessuno ha la bacchetta magica. Eppure, in un mondo ormai interconnesso, serve forse una nuova generazione di manager e politici che sappia contrastare le tendenze suicide dell’umanità, come quella dell’ingiusta distribuzione delle risorse alimentari. Lo ripete Giulio Albanese: Non bisogna gettare la spugna davanti a queste problematiche complesse, ma capire che la sfida, prima ancora di essere politica o economica, è culturale. Bisogna aiutare la gente a capire che abbiamo un destino comune. Cittadini mondo, dunque, capaci di capire il locale, con in mente il globale, supportati da una attenta e forte opinione pubblica. Ma con quale cultura? Questa è la domanda essenziale. Non a caso, Albanese, Deaglio e Bruni (vedi box) affermano tutti e tre che il vero problema è culturale e danno indicazioni preziose su come e dove ricominciare. Riassumendo quanto affermano i tre esperti da noi interrogati, forse alla ricetta necessaria per curare il mondo si potrebbe mettere per titolo: Cultura del dare. I guasti della (pseudo) cultura dell’avere sono sotto gli occhi di tutti: c’è ancora chi muore di fame quando si potrebbero nutrire 12 miliardi di persone se la distribuzione del cibo fosse coordinata a livello mondiale. Questo, naturalmente, va tradotto in idee e pratiche sociali ed economiche concrete. Dove passa un’idea, dopo un po’ passa la storia: ce lo insegnano coloro che hanno saputo pensare bene. Ce lo chiede anche il clamoroso fallimento dell’ultimo vertice Fao tenutosi a Roma a inizio giugno: neanche davanti ad un disastro ormai globale, i grandi della Terra sono riusciti a mettere da parte le loro divisioni. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, recita il Padre nostro… È evidente, ci serve una mano. Chiediamola. Ma i nostri nonni non dicevano anche: Aiutati, che Dio ti aiuta? UN MONDO DISTORTO Dalla dichiarazione della Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario (Focsiv). Oggi semplicemente si pagano le conseguenze di un sistema che abbiamo impostato da anni, dove la produzione di cibo non viene determinata dalle necessità alimentari dei singoli Paesi e delle rispettive popolazioni, ma dalle Borse finanziarie, dalla esigenza di proteggere categorie protette, dalla tutela dei mercati occidentali. Spiegare la crisi alimentare come effetto di una scarsità di cibo sul mercato è estremamente pericoloso, perché tra le possibili soluzioni ci sarà l’introduzione degli Ogm (Organismi geneticamente modificati) che avrebbero delle ricadute economiche e sociali devastanti per i Paesi poveri. FARE QUALCOSA SI PUÒ Di fronte a quello che sta succedendo nel mondo, è facile sentirsi impotenti o pensare che come singoli e famiglie non possiamo fare nulla. In realtà si può cominciare da casa propria, adottando uno stile di vita più sobrio, con meno sprechi di acqua e cibo, minor consumo di carne e… qualche digiuno. Non è facile cambiare le abitudini, ma se non lo facciamo volontariamente, prima o poi dovremo farlo perché obbligati. Si può inviare denaro tramite organismi di sostegno allo sviluppo di cui ci fidiamo, come l’Amu (www.amu-it.eu) che attualmente ha vari progetti attivi nei Paesi in via di sviluppo: sicurezza alimentare e approvvigionamento idrico; formazione professionale e scolastica; infrastrutture e sanità; infanzia e famiglie; sviluppo economico e sociale. Infine possiamo anche spendere un po’ del nostro tempo in volontariato all’estero: sul sito del Focsiv (www.focsiv.org) si trovano alcune proposte interessanti. LA FAME È UN’ARMA Giulio Albanese, comboniano, da una vita in giro per l’Africa per seguire direttamente i progetti di aiuto allo sviluppo, e in Europa come giornalista direttore della rivista Popoli e missione ed editorialista di Avvenire. Non sono parole tenere, quelle di Albanese. Una ingiusta distribuzione Tante chiacchiere, ma manca la volontà politica. La fame è un’arma per tenere in stato di sudditanza le popolazioni povere del mondo. Se sulla Terra si produce cibo per sfamare dodici miliardi di persone (rapporti Fao), e oggi siamo sei miliardi e mezzo, vuol dire che se ci fosse una giusta distribuzione tutti mangerebbero. Invece qualcuno preferisce accumulare le derrate alimentari nei grandi silos per speculare sui rialzi di prezzo. Gli sprechi dei ricchi Noi abitanti dei Paesi ricchi sprechiamo una gran parte del cibo. La famiglia media italiana butta 580 euro l’anno di alimenti nella pattumiera. Pensare al contesto locale Un’altra piaga è la corruzione nei governi locali e il fatto che la cooperazione viene organizzata in Europa, senza pensare al contesto locale. Con la conseguenza che finché c’è il cooperante volontario va tutto bene, ma quando se ne va o termina il finanziamento, tutto torna peggio di prima. Diventano cattedrali nel deserto. Ci vuole autosufficienza, non carità pelosa. Basta emergenza, ci vuole sviluppo Siamo ancora fermi all’emergenza; purtroppo le linee di finanziamento internazionale non sono orientate allo sviluppo. Questo è dovuto a miopia della nostra classe dirigente, ma anche al fatto che a qualcuno conviene passare da un’emergenza all’altra, in modo da non risolvere mai i problemi ed evitare che i Paesi poveri escano dal sottosviluppo e non siano più controllabili. Chi detta le regole? A stabilire le regole finora sono le grandi corporation e le nazioni dove vi è concentrazione di denaro. Invece bisogna tener conto delle economie deboli, altrimenti in un mercato senza regole i più forti fanno quello che vogliono. Di questo passo saranno sempre meno quelli che hanno soldi da spendere, con una conseguente contrazione del mercato e l’incubo recessione. Una sconfitta per tutti. Un destino comune La questione di fondo è di tipo economico. Se permettessimo a questi popoli di raggiungere il nostro modello di sviluppo, come stanno facendo Cina ed India, questo significherebbe che nel mondo non ci sarebbero più né acqua, né foreste, né cibo sufficiente. Allora dovremmo rivedere per forza il nostro modello di sviluppo, e cominciare a capire che abbiamo un destino comune, noi e loro insieme. LA RESA DEI CONTI Mario Deaglio insegna Economia internazionale all’Università di Torino ed è coautore, ogni anno, del Rapporto sull’economia globale e l’Italia. Prof. Deaglio, com’è la situazione? Brutta, abbiamo consumato tutto il cuscinetto delle riserve alimentari senza prendere alcuna precauzione. Il campanello è suonato diversi anni fa, ma non l’abbiamo ascoltato. Di colpo ci troviamo che possiamo mangiare solo con quello che produciamo quest’anno. La colpa è della finanza internazionale? La finanza è sempre colpevole di tutto… la colpa è probabilmente di chi non ha visto questi campanelli d’allarme: i governi non si sono resi conto di una situazione che stava cambiando rapidamente. Come attenuante ci sono due siccità, assolutamente imprevedibili, che hanno distrutto il raccolto cerealicolo dell’Australia, e l’aumento di domanda cinese. L’impressione è che nessuno sappia bene cosa fare… Impressione giusta, anche alla luce dei risultati del vertice Fao di Roma: idee concrete ce ne sono poche. Anche perché prima di due o tre anni in nessun caso questa situazione si può riequilibrare: l’agricoltura, anche se fortemente stimolata, ha bisogno di tempo per adeguarsi. E speriamo che il clima non ci faccia altri scherzi. In questi due anni bisogna gestire l’emergenza, con razionamenti e distribuzione di aiuti. Molti Paesi lo fanno già. Non manca una prospettiva, la cultura giusta per risolvere il problema? Sì, anzi c’è la cultura sbagliata, quella dell’attitudine protezionista dei Paesi ricchi, che impedisce lo sviluppo di quelli poveri. Se da noi aumenta il prezzo del cibo è una cosa seria, ma la possiamo gestire. Se succede in un Paese povero è la catastrofe. Se nuovi Paesi emergenti raggiungessero il nostro livello di vita le risorse non basterebbero più. Quindi bisognerà ripensare anche gli stili di vita. Forse sì. Diciamo che la scommessa del capitalismo è sempre stata quella di produrre di più, così che tutti diventassero più ricchi e nessuno più povero. Questo però ha portato ad una forte pressione ambientale: e qui il mercato non funziona più. L’anno scorso, nel suo Rapporto sull’economia globale e l’Italia, lei affermava che i governi sembrano ormai incapaci di controllare i processi di mutamento in atto nel mondo. Quest’anno ha rincarato la dose parlando di resa dei conti. Come se ne esce? Il mercato deve fare un passo indietro, deve essere più regolato da un coordinamento che impedisca il ripetersi di questi fenomeni che evidenziano una totale perdita di controllo. Mi accontenterei di una collaborazione stretta, anche informale, tra le tre o quattro banche centrali che contano, mentre per ora gli statunitensi vanno totalmente per conto loro perché così hanno sempre fatto. Ma ora i tempi sono cambiati. La resa dei conti è questa.