Te la do io la Groenlandia
Qualche giorno fa il nostro corrispondente dal Brasile scriveva sulla deforestazione massiccia dell’Amazzonia. Mi sembra utile collegarmi a quell’articolo a proposito anche della Groenlandia, oggetto delle mire del presidente statunitense, che ha confermato domenica 18 agosto il suo interesse ad acquistare la terra dalla Danimarca, una possibilità che ha definito una «grande transazione immobiliare», anche se ha affermato che ciò non era tra le priorità degli Stati Uniti. Perché la logica che sottostà sia allo sfruttamento dell’Amazzonia che al possibile acquisto della Groenlandia è la stessa: il nostro pianeta può essere oggetto di commercio, e il più forte vincerà. Senza calcolare né conseguenze politiche né conseguenze ambientali.
«È qualcosa di cui abbiamo parlato – ha detto Trump ai giornalisti –. L’idea è venuta fuori e strategicamente è sicuramente interessante. Ne parleremo un po’ con la Danimarca». L’interesse, ovviamente, è principalmente strategico, visto che quella vasta terra è abitata solo da 56 mila persone, ma anche commerciale, viste le indiscrezioni sulle risorse minerarie del sottosuolo che sarebbero straordinarie.
Trump ha aggiunto: «In sostanza si tratterebbe di una grande transazione immobiliare. La gigantesca isola artica sta facendo molto male alla Danimarca, perché stanno perdendo circa 700 milioni di dollari ogni anno per mantenerla». Risposta danese: «La Groenlandia è ricca di risorse preziose. Non è un territorio in vendita», ha risposto venerdì il ministro degli Affari esteri danese su Twitter.
Lo ricordiamo: la Groenlandia è stata una colonia danese fino al 1953, quando entrò nella “Comunità del Regno” danese. Nel 1979, l’isola ottenne lo status di “territorio autonomo”, ma la sua economia dipende ancora fortemente dai sussidi versati da Copenaghen. Grande più di cinque volte l’Italia, la Groenlandia è ad oggi l’unica “finestra” dell’Unione europea sulla zona artica. Geologicamente parlando, ovviamente, la grande isola fa parte del continente americano.
Al solito, il presidente statunitense mette da parte la diplomazia, una scienza politica (che comunque andrebbe emendata in vari suoi aspetti) da lui considerata secondaria se non è in funzione di “fare affari”. È la logica dello slogan della sua campagna elettorale: “America First”, prima l’America. Nulla di nuovo, come nulla di nuovo viene dal disprezzo per Nostra madre Terra, considerata come ogni altro prodotto un possibile oggetto di scambio. Come Bolsonaro attualmente sta considerando l’Amazzonia una riserva da sfruttare, e tanto peggio per i cambiamenti climatici, tanto peggio per le popolazioni che la abitano, tanto peggio per tutti coloro che lavorano per una sua salvaguardia, Norvegia e Germania comprese, così Trump getta un’ombra di disprezzo sui danesi, sull’Europa, sulla Storia, sulla popolazione locale, sulla salvaguardia della natura (quale sfruttamento verrebbe fatto di quella terra?).
Ma la visione esclusivamente mercantilista della politica (e della vita), che considera la Terra una variabile dipendente dalla stessa politica si scontrerà: con i cambiamenti climatici e i danni che essi porteranno alle economie del mondo intero (all’Onu e altrove si comincia a quantificare le spese indotte dall’inquinamento); con il pensiero e l’azione di miliardi di uomini e donne che credono in Dio e/o nella bontà e nella necessaria preservazione della sua creazione (la difesa della natura è diventata per molti che non hanno una fede quasi una fede); con le argomentazioni filosofiche di chi è attento alle questioni dei diritti e dei doveri (perché Trump non tiene conto minimamente del parere dei 56 mila abitanti della Groenlandia? Valgono meno dei cittadini a stelle e strisce?)… La logica commerciale in politica è una logica elettoralistica, di cortissimo respiro. Ancor più la logica immobiliare. Sperando che non faccia danni irreparabili.