La Divina Commedia, una massa in cerca di luce
Dentro lo storico Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, la visione che ci accoglie lascia senza fiato: una distesa sterminata di persone sdraiate, sedute, inginocchiate su logore coperte di fortuna, immagine che richiama immediatamente la moltitudine di profughi a cui ormai siamo avvezzi dalle cronache quotidiane, e che continua a interpellare le nostre coscienze. Non poteva esserci quadro più potente per iniziare il viaggio dentro la “Divina Commedia_Ballo 1265”, evento commissionato a Virgilio Sieni a conclusione delle celebrazioni dei 750 anni della nascita di Dante. Il coreografo fiorentino imbastisce le tre cantiche dantesche,Inferno, Purgatorio e Paradiso, attraverso una partitura coreografica che muove una moltitudine di persone – 152 cittadini comuni di ogni età, razza e condizione fisica, più 12 danzatori della Compagnia di Sieni -, interpreti della condizione dell’uomo di oggi: una massa umana dolente che attraversa la selva oscura del nostro tempo, che vaga nelle tenebre dell’anima inaridita, del corpo sfiancato, e anelante alla liberazione, alla dignità di esseri umani, alla fratellanza.
Sieni orchestra con grande sapienza registica gli spostamenti continui di quell’agglomerato umano accompagnandoli con una gestualità corale, a tratti intima, che si confonde con quella più danzante dei suoi performer. Mentre una voce scandisce il numero dei 33 canti danteschi dell’Inferno, sulla tessitura ritmica sviluppata dalle percussioni live di Michele Rabbia, la folla si apre e si richiudepercorrendo l’enorme salone da un punto all’altro espellendo e riassorbendo di continuo quanti si distaccano per dar vita a grumi di posture plastiche, a deposizioni scultoree, a corse fuggitive, a incursioni in altri angoli, a gruppi in cerca di un altrove.
Il Purgatorio vede l’incedere della massa assomigliare ancor di più a un esodo di esclusi, di diseredati, di ultimi della terra, intenti a costruire una baraccopoli allestita con teli di plastica, cartoni, taniche, mattoni, aste, coperte, che ciascuno reca con sé. Quasi una sosta che si carica di speranza in attesa di traghettare verso un luogo migliore.
E nel Paradiso, spogli ormai di ogni materia, quei frammenti umani, finora informi, tormentati, si ricompongono in file simmetriche, frontali, muovendosi come un’onda nella risacca, poi chiudendo gli occhi come in un’ascesa mistica, e riaprirli per riscoprirsi tra loro e guardare noi non più spettatori ma inglobati in quella visione umana e divina che tutti trascende. In questo cammino spirituale dell’umanità, con felice intuizione Sieni assegna a un uomo disabile nelle gambe, che per tutto il tempo si trascina gattoni sul pavimento, la figura del traghettatore Caronte facendone uno strumento della giustizia divina. O forse si tratta dello stesso poeta Dante che osserva e segue, inghiottito e restituito dall’andirivieni della folla, quelle creature che i bagliori di una fonte luminosa, ora forte ora più debole, bagna perennemente in controluce.