La distorsione del nirvana
Nel 1984 ho iniziato a frequentare templi buddhisti: ero poco più di un ragazzo appena arrivato in Asia, ed ero affascinato da quei monaci vestiti di arancione che lasciavano tutto e parlavano del distacco da ogni cosa e di un vuoto misterioso ma pieno di pace e serenità: il nirvana. Una mattina, mentre andavo a scuola di lingua, ho seguito uno di loro che mi aveva inaspettatamente sorriso: mi sono ritrovato, poco dopo, in un tempio buddhista a ridosso dalla scuola, nella stanza di questo monaco “sorridente”, che mi aveva invitato a mangiare con lui (in ritardo capii che, per rispetto, avrei dovuto aspettare che lui finisse prima di me). Era l’inizio della mia avventura asiatica con i phraphisuk, i santi nel buddhismo theravada, il buddhismo più ortodosso, per intenderci. Da quel giorno fino ad oggi, le esperienze si sono moltiplicate e approfondite ed ho apprezzato, in 34 anni, tanti incontri e colloqui con dei monaci. Posso dire che con alcuni di loro ci capiamo al volo e siamo davvero amici.
Il buddhismo thailandese e quello birmano appartengono allo stesso filone theravada, o “piccolo veicolo”, anche se le differenze storiche sono profonde. Il buddhismo in Myanmar ha sempre avuto un legame molto forte (anche troppo) col potere, e in molte regioni il legame è diventato nei secoli addirittura asfissiante. Una buona maggioranza dei monaci in Myanmar ha intrapreso la via della pace e della convivenza pacifica con le altre etnie e gruppi religiosi: ma una piccola e agguerrita minoranza continua ad alimentare l’odio raziale contro i rohingya, o “bengalesi” come vengono chiamati. I monaci buddhisti sono profondamenti inseriti nella vita della nazione e hanno bisogno della gente per vivere: in cambio del cibo offrono una guida per le scelte religiose, sociali ed anche politiche della gente. Accettando le donazioni dalle persone, i phraphisuk aprono la “via al nirvana”, alla liberazione, alla pace, alla reincarnazione per la prossima vita, per una condizione migliore.
L’offensiva militare scatenata da parte dell’esercito del Myanmar il 25 agosto del 2017 contro i militanti musulmani rohingya, che avevano attaccato alcune postazioni governative uccidendo 12 tra militari e poliziotti, ha provocato un esodo di circa 700 mila rohingya verso il Bangladesh: si parla di circa 10 mila profughi uccisi in un’operazione che le Nazioni Unite hanno definito «una pulizia etnica da manuale». Tutto questo è stato condannato dal mondo intero, e documentato dalle maggiori reti mediatiche mondiali, con servizi agghiaccianti che possono essere visionati in Rete. Molti analisti hanno attribuito la ragione del viaggio del papa a Yangoon del novembre di un anno fa, proprio alla volontà di Bergoglio di contribuire a fermare il genocidio e aiutare alla riconciliazione nazionale. per far ritornare i profughi Rohingya indietro, alle loro case, nello stato del Rakhine. L’incontro col generale Min Aung Hlaing e con i suoi collaboratori era inserito in questa iniziativa del papa. I generali, dopo quella storica visita, hanno cercato di favorire questo ritorno dei rohingya, almeno per salvare la faccia nei confronti della comunità internazionale.
Ma un dettaglio è stato trascurato, cioè che nessuno dei profughi vuole ritornare nei propri villaggi, distrutti, letteralmente rasi al suolo, dove i militari che hanno ucciso e seppellito i morti in fosse comuni sono ancora al loro posto di comando. «Secondo la legge internazionale, i responsabili devono essere assicurati alla giustizia: invece se ciò non avviene, noi abbiamo paura di ritornare», dicono i profughi ai giornalisti. E senza l’assicurazione che verrà concessa, la cittadinanza del Myanmar, a questa gente che è nata e cresciuta nel Rakhine, i rohingya non faranno mai ritorno alle loro baracche: o meglio, alle macerie dei loro villaggi. In pratica, i nuovi luoghi preparati dalla autorità del Myanmar per accogliere i rifugiati sono ancora completamente deserti e lo rimarranno finché la giustizia nazionale e internazionale non avrà fatto il suo corso. Per i 720 mila profughi che ancora aspettano nei campi a ridosso del confine tra Myanmar e Bangladesh, la vita va avanti in condizioni disperate.
E intanto nei campi si raccolgo testimonianze, nomi, numeri dei battaglioni, gradi dei militari coinvolti nella pulizia etnica contro i rohingya. Un primo rapporto di circa 4 mila pagine è già pronto e s’invoca un’istruttoria internazionale per crimini contro l’umanità delle massime cariche dell’esercito del Myanmar, che rimangono sulla difensiva e non intendono rispondere delle accuse che gli sono rivolte dalla comunità internazionale.
Una crisi profonda, sociale, politica e religiosa, e soprattutto una frattura esistono nella società, dove un folto numero di monaci fondamentalisti continua anche in questi giorni a sostenere non la pace e l’armonia civile, ma l’impossibilità del ritorno dei “bengalesi” nei loro villaggi e chiede al tempo stesso l’impunità per i militari, che hanno “difeso” il Myanmar dai terroristi islamisti. Una situazione molto difficile, delicatissima, con risvolti complessi: la comunità internazionale deve muoversi con estrema cautela se non vuol far cocci della coesione nazionale che ancora esiste in Myanmar. Dopo 70 anni di guerra civile siamo di fronte a una nuova crisi sociale, politica e religiosa che non può essere risolta con parametri semplicemente occidentali.