La disfatta dell’Opera
«E’ evidente che è in corso un attacco a tutte le formazioni lirico-sinfoniche, che sta portando il livello culturale di questo paese al suo minimo storico, sfasciando quelle che sono le poche eccellenze di identità culturale che ci sono rimaste». Non usa mezzi termini Lorella Pieralli, mezzosoprano del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, e sindacalista della Fials, uno dei soggetti sindacali che stanno lottando per non far perdere il posto di lavoro ai dipendenti del teatro.
Riassunto delle puntate precedenti: il 2 ottobre il consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma, presieduto dal sindaco Ignazio Marino, ha approvato una procedura per fare in modo che orchestra e coro siano esternalizzati con il conseguente licenziamento degli artisti, assunti e stabilizzati tramite un durissimo concorso internazionale. La decisione è arrivata dopo mesi di crisi, che ha portato lo scorso 14 settembre alla rinuncia da parte di Riccardo Muti di ogni suo impegno per dirigere l’Aida e le altre opere in cartellone.
Ciliegina sulla torta, l’11 ottobre, nel giorno delle celebrazioni verdiane, il teatro è stato affittato da una grande casa di moda per una festa che ha trasformato il tempio dell’opera in una discoteca con tanto di dj, cubisti, e luci psichedeliche. Un vero e proprio sciacallaggio.
Dott.ssa Pieralli, si è detto che la decisione del Cda sia dovuta soprattutto a un buco economico che non si riesce a risanare.
«Il discorso economico è complicato: le fondazioni sinfoniche italiane sono tutte in rosso, e se vogliamo dire la verità la fondazione del Teatro La Scala di Milano, ad esempio, è più in rosso di noi. Bisogna capire la differenza tra quello che è il debito strutturale storico e i bilanci annuali. Mentre questi ultimi sono in pareggio da oltre 12 anni, le fondazioni hanno accumulato un debito strutturale precedente, che lo stato non può più colmare. Ora è vero che se c’è un debito ci saranno delle cause che vanno estirpate, ma alla fine perché ci devono rimettere sempre i lavoratori?»
Dicono che siete dei privilegiati…
«Assolutamente no: un corista prende 1700-1800 Euro al mese per 14 mensilità, un orchestrale sui 2100. Stipendi certamente non da fame per i tempi che corrono, ma ai quali corrisponde un lavoro enorme che facciamo per molte ore al giorno, per 320 giorni l’anno, in teatro o a casa. Teniamo inoltre conto che l’acquisto e la manutenzione dello strumento, che è il mezzo di lavoro, sono a carico dell’artista: e i costi sono elevati, infatti alcuni arrivano a contrarre dei mutui per onorare queste spese… insomma, sono soldi sudati».
Perché non è possibile utilizzare i fondi stanziati dalla Legge Bray?
«La cosiddetta Legge Bray (il decreto-legge 91/2013 chiamato Valore cultura, nda) è stata pensata proprio per coprire i buchi di bilancio e innestare un processo virtuoso per gli enti culturali, ma è stata una legge in gran parte inattuata. Il ministro Franceschini inoltre, che è succeduto a Bray, ha stabilito che i bonus per la defiscalizzazione previsti dalla legge siano erogabili solo per i monumenti, ma non per gli spettacoli dal vivo».
In realtà per accedere ai fondi è necessario un piano di ristrutturazione aziendale che è stato presentato dal vostro nuovo sovrintendente, e che alcune sigle sindacali, fra cui la FIALS, non hanno sottoscritto. Perché?
«Ci sono strategie e sensibilità diverse anche tra i sindacati: noi abbiamo ritenuto quel piano incompleto e poco credibile, poiché manca di informazioni fondamentali prescritte dalla stessa legge e che sono state omesse; purtroppo i fatti dimostrano ora che la nostra diffidenza era più che giustificata: non si chiariva quale fosse il numero di lavoratori necessari alla struttura del teatro per la produzione. La risposta è stata data nel modo che ora è sotto gli occhi di tutti. Licenziati!»
L’impressione quindi è che si salvi solo la betoniera?
«Io penso che con la legge Franceschini si sia voluta dare una priorità alla ristrutturazione di monumenti e creare un circolo virtuoso soprattutto per l’edilizia. Niente di male, ma questo non può avvenire a scapito della cultura: è chiaro che la cultura rende meno rispetto al mattone, ma allora dove vogliamo portare il nostro paese?»
Il Teatro dell’Opera solo pochi mesi fa era alla ribalta dei maggiori palcoscenici mondiali…
«Abbiamo portato in alto il nome e l’onore dell’Italia nel mondo, portando in scena il Nabucco e il Simon Boccanegra, entrambi di Giuseppe Verdi, al Bunka Kaikan di Tokyo. Il maestro Muti in quell’occasione ci ha detto che siamouno dei migliori teatri al mondo nel rappresentare l'identità della cultura italiana. E ci ha ricordato che tra le caratteristiche importanti dell'Italia e di Roma c'è proprio il Teatro dell'Opera. E l'Italia nel mondo ha un significato profondo soprattutto attraverso l'opera e l'opera italiana, che ci rappresenta ovunque. E non si può raggiungere l’eccellenza delle prestazioni artistiche con musicisti che vanno e vengono. Ci vuole un gruppo affiatato, che abbia la tranquillità di lavorare, con la stabilità del personale artistico che favorisce lo sviluppo del talento».
Lei parla come se dietro ci fosse altro, rispetto al problema economico.
«Non sono l’unica a pensarla così. Ho l’impressione ci sia un disegno molto potente e ampio, che mira a eliminare le occasioni di una fruizione comune e comunitaria della cultura in Italia, per lasciare spazio ad altri modelli culturali che vanno più d’accordo con le esigenze del mercato e del consumo. Mi creda, non è solo un problema di soldi, fosse solo per quello un accordo si sarebbe già trovato».