La dignità del pensare

Filosofia, teologia, politica, speranza, libertà. Intervista a Massimo Cacciari.
Massimo Cacciari Sophia

Piero Coda, preside dell’Istituto universitario Sophia, l’ha definito «uno dei pensatori più radicali, sentinella che apre spazi di novità nella transizione epocale che stiamo vivendo», oltre che «amico e compagno di ricerca intellettuale». Non a caso, ultimamente ha scritto con lui il volume a due mani Io sono il Signore Dio tuo, edito dal Mulino.

Intervistiamo a 360° gradi Massimo Cacciari, filosofo, accademico, ex sindaco di Venezia, in un intervallo del suo intenso dialogo, durato ben tre ore, con gli studenti dell’Istituto universitario Sophia, a Loppiano (Incisa Valdarno).

 

In una società appiattita sull’effimero, lei ha scritto un libro sulle “cose ultime”. Ci vuole coraggio…

«Coraggio è un termine difficile da usare, quando non ne vada esplicitamente della tua vita. Preferisco dire che, rispetto alla moda, è un segno di contraddizione parlare di ciò che dura, che è persistente. Fintanto che uno ce la fa».

 

Oggi si cerca di eliminare ogni traccia del divino nel mondo. Perché?

«È un processo che viene da lontano, affonda nell’origine del nostro pensiero. Sembra che ragione, logos, significhi ormai solo il discorso, razionalmente verificabile, che giunge alla determinazione assolutamente evidente della “cosa”. Al di là di questo ambito tutto sarebbe fantasia, discorso insensato, non verificabile empiricamente, quindi privo di consistenza. Non è ateismo da due soldi, è un processo che investe tutta la razionalità occidentale, oggi rafforzato dallo straordinario successo del progetto tecnico-scientifico. Questa visione del mondo è dominante, ma comporta una contraddizione fondamentale: mentre da un lato questo progetto è onnicomprensivo, noi continuiamo ad essere molti, parliamo tante lingue, abbiamo idee contraddittorie, ci facciamo guerra gli uni con gli altri, anche al nostro interno, con noi stessi. Mentre la razionalità è una sola».

 

Ci sono altre prospettive…

«Questa isola tecnico-scientifica ha pensato di poter bonificare l’oceano delle contraddizioni in cui si trova. È forte, ma attraversata da correnti di vario genere che ne contestano l’egemonia, molte volte in forma impotente come i fondamentalismi di tipo religioso. È una questione di competenza, perché è sempre più difficile affrontare le procedure tecnico-scientifiche dal punto di vista “umanistico”. Vi è una tendenza quasi inesorabile a separarsene, ma è la morte. Sia chiaro: dove la filosofia cessa di aver rapporti con la scienza, quest’ultima può pensare di sopravvivere, pur sbagliando, mentre la filosofia muore».

 

È una critica forte la sua…

«Guai a cadere in atteggiamenti nostalgici, ci confrontiamo con processi vittoriosi, saremmo sciocchi a sottovalutare questi risultati scientifici che hanno determinato sconvolgimenti epocali. Il problema è collocarci all’interno di questi processi, conoscerli, vedere quali possono essere le conseguenze. Non una critica dall’esterno, ma da dentro il processo».

 

Quale il suo stile di insegnamento nella sua facoltà?

«Nella facoltà di filosofia che ho fondato dieci anni fa, l’idea iniziale era proprio questa, anche grazie al fatto che era parte integrante di un progetto scientifico-culturale complessivo riguardante anche medicina, psicologia e biologia. Abbiamo momenti di incontro e dialogo, ma è faticoso aprire la ricerca filosofica a questo orizzonte e ancor più difficile interessare la scienza, perché gli scienziati ritengono questa critica una polemica contro la scienza. Perché si apra il dialogo bisognerà arrivare a grosse criticità antropologico-culturali, come quando diverranno evidenti problemi come l’impossibilità della riduzione del pensiero a “mente-corpo”, e della pluralità dei mondi di vita alla razionalità. Non siamo ancora arrivati ad una criticità traumatica».

 

Pessimista?

«No, realista. La nostra esistenza sta progressivamente perdendo ogni carattere “ek-statico”, cioè che superi la determinatezza dell’ente. Il senso, il valore che noi attribuiamo alla nostra esistenza oggi è solo conoscere questo o quell’ente, in modo chiaro ed evidente. C’è un rovesciamento totale: una volta il significato dell’esistenza era nello “star fuori”, nell’eccedere la determinatezza dell’essere».

 

La teologia serve ancora a qualcosa?

«La teologia cerca di esprimere Dio, ma un Dio che si rivela. Mentre la filosofia è amore del sapere nella massima indeterminatezza. Il filosofo non ha presupposti e, pensando le cose ultime, penserà in una forma o nell’altra Dio, il sommo. Lì diventa necessario il dialogo con il teologo. Naturalmente a partire dalla distinzione radicale di cui sopra. E sperando che la teologia non si riduca all’interpretazione del senso del testo».

 

Ha senso il “negativo”?

«La domanda è importante perché l’interrogazione filosofica deriva da una situazione di non tranquillità, di dolore. Filosofia e scienza non procedono attraverso tranquilli laghetti, non è piacevole quando un problema ti viene addosso e hai necessità di rispondere. Senza questo negativo neanche inizi il percorso. D’altra parte, quando Gesù risorge, è tolto il negativo o lui rimane in croce fino alla fine dei tempi? Il negativo è costitutivo del tutto».

 

Siamo liberi?

«Che cos’è libertà se non pensare? L’unica manifestazione di libertà è pensare. La mia dignità è questa libertà di pensare. Condizionata, perché il mio pensare ha dei limiti, ma nel pensare mi sento libero».

 

C’è speranza?

«La speranza è la merce più a buon mercato che si possa immaginare. I politici nostrani ne sanno qualcosa, vendono promesse, è la cosa più facile di questo mondo. Una speranza obiettiva invece è difficile da costruire, soprattutto nei momenti di crisi. Guai ai venditori di speranza. La responsabilità chiama ora. Non “ti prometto che domani…”; no, “ora, cosa fai ora?”. Futuro e speranza sono termini che io uso con grande prudenza».

 

A proposito di politica, ha ancora senso parlare di destra e sinistra o sono i temi etici a dividere?

«L’agenda politica attuale non ha nulla a che fare con i contenuti di destra e sinistra di una volta; basta pensare ai temi che oggi si dibattono nel nostro paese: federalismo, immigrazione, bioetica. Perché uno che è contro l’aborto dovrebbe essere di destra? O chi è contro il federalismo è di sinistra? Le categorie destra e sinistra avevano senso finché vi erano schieramenti ideologici chiari, opzioni nette, per esempio sul rapporto tra economia e politica. Tra l’altro il linguaggio attuale del politico non parla alle nuove generazioni. Chi frequenta giovani e politica lo sa: per loro il linguaggio usato dai politici è un ostrogoto assoluto. Questi non hanno capito nulla della trasformazione del linguaggio; le loro parole non sono traducibili nel linguaggio delle nuove generazioni».

 

Cosa sottolineerebbe del pensiero di Chiara Lubich?

«La testimonianza della Lubich è importante prima di tutto per l’idea di unità, unità di molti singoli, non di molti “generici”. Di individui. Questo tema dell’unità di molti è un tema filosofico e teologico declinabile in tante lingue, non solo come testimonianza di fede. E un secondo aspetto fondamentale è un’idea che è il vero “succo” del cristianesimo: c’è uno che vince nella sconfitta, una sconfitta vittoriosa, un segno di contraddizione, sommo rispetto ad ogni forma di razionalità ordinaria. Quest’idea è fondamentale, fonda ogni possibile amicizia, ogni prossimità, perché dove manca rimane solo l’amicizia tra simili, tra persone che si sono affermate, mentre il discorso vero di prossimità è nei confronti dello sconfitto. Quest’idea è fondamentale per giungere a qualsiasi discorso di solidarietà, anche dal punto di vista pratico e politico».

 

Chi è l’uomo Cacciari?

«Non so, vorrei avere più tempo per studiare. Ma francamente devo dire che il pensare a me stesso l’ho sempre trovato una colossale perdita di tempo. In vita mia avrò pensato a me stesso cinque minuti. Non ho trovato nessuna verità, né tanto meno alcun dio, ma ho occhi solo per l’esterno, sono un estroverso. Anche se non sembra. Speriamo che la mia sia una buona curiositas».

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